Terrorismo, scoperta fabbrica di kamikaze a Milano
06 Novembre 2007
Arruolavano kamikaze da spedire in Afghanistan ed Iraq e mantenevano l’organizzazione terroristica islamica di matrice salafita con lo spaccio di droga e il traffico di esseri umani. Da oggi diciassette componenti di questa banda sono finiti in carcere in Italia e altri tre all’estero. E’ questo il quadro che emerge dall’ordinanza di circa 500 pagine con la quale il Gip di Milano, Luisa Savoia, ha emesso i provvedimenti. Le persone arrestate si riunivano in due appartamenti a Milano e in uno in Reggio Emilia. Gli uomini del Ros hanno trovato nelle loro abitazioni “materiale di ispirazione jihadista”, tra cui manuali per la costruzione di esplosivi e materiale audiovisivo di propaganda terrorista.
Secondo le intercettazioni fatte dai carabinieri l’indottrinamento dell’organizzazione islamica (i cui membri, secondo prime ricostruzioni, sembrerebbero frequentatori della moschea milanese di via Padova) avveniva anche attraverso il telefono. Tra le diverse intercettazioni, che hanno permesso di ricostruire la rete dell’organizzazione, ce ne è una in cui una persona fa finta di trovarsi in un’auto piena di esplosivo prima di un attentato suicida. Una sorta di vero e proprio training psicologico, operato da parte di chi sta dall’altra parte della cornetta e atto a sostenere il kamikaze nella realizzazione del suo proposito.
In un’altra telefonata alcuni componenti del gruppo finito in manette fanno riferimento all’invio di “17 fratelli” in Siria. Paese chiave per chi organizza attentati suicidi in Iraq e in Afghanistan . Pare che manchino all’appello tre persone che si trovano all’estero e non sono state ancora catturate. Tra gli altri componenti della presunta associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, uno in Inghilterra, uno in Francia e un terzo in Portogallo. Per quanto riguarda i leader del nucleo terrorista in Italia, i nomi sarebbero quelli di Dridi Sabri a Milano, Medi Ben Nasr a Reggio Emilia e Imed Ben Zarkaouwi.
Chaouwki Belhaj Meftah, tunisino di 24 anni, uno dei quattro arrestati a Reggio Emilia dai carabinieri del Ros nell’ambito dell’operazione che ha decapitato un’organizzazione eversiva islamica, era pronto ad immolarsi come kamikaze in Afghanistan per fornire il proprio contributo alla guerra islamica. Meftah, per gli inquirenti, è uno dei più pericolosi tra i venti arrestati sul territorio nazionale. In alcune recenti intercettazioni si deduceva che il momento della partenza era prossimo. Gli altri arrestati a Reggio Emilia sono il capo della cellula Mehdi Ben Nasr, tunisino di 31 anni, manovale; Younes Hassine Amor, pure tunisino di 31 anni, carpentiere; Faicel Ban Ajmi Belhaj Meftah, manovale tunisino di 29 anni. I tre sono stati fermati nelle loro abitazioni di Reggio Emilia, Cavriago e Novellara.
Altri quattro tunisini, un siriano e un medico giordano sono indagati a vario titolo e sono stati sottoposti a perquisizione da parte dei carabinieri che hanno trovato nelle loro case materiale cartaceo ancora al vagli di estremo interesse. Gli arrestati sono accusati di aver preso parte ad un’associazione per delinquere che si proponeva il compimento di atti di violenza, in Italia e all’estero, per finalità di terrorismo, ed aveva a Milano la sede decisionale e a Reggio Emilia la principale struttura logistica, per falsificare documenti, agevolare l’ingresso illegale in Europa di cittadini extracomunitari, nonchè reclutare volontari per la Jihad.
Le indagini, basate su attività di intercettazione telefonica e ambientale, hanno posto in luce la fondamentale importanza della cellula reggiana. Quasi tre anni di lavoro hanno portato i carabinieri ad incastrare gli arrestati, che frequentavano soprattutto phone center e moschee. Un’abitazione di via Debeli, a Reggio Emilia, nella disponibilità della “mente” (una delle tre) Mehdi Ben Nasr, era il luogo di incontro e discussione, riferimento per un elevato numero di estremisti: numerosi Imam arrivavano da varie parti del mondo per diffondere la loro dottrina, con la necessità del ricorso alla Jihad. Gli incontri nell’appartamento reggiano sono stati ascoltati: i partecipanti discutevano della causa islamica, evidenziando, è stato spiegato dagli inquirenti, una radicale inclinazione al bisogno di diffondere la guerra santa nei paesi occidentali.
E pensare che per Imed Zarqawi era iniziato proprio stamani a Milano un processo d’appello, dopo l’assoluzione in primo grado dall’accusa di terrorismo internazionale e una condanna a tre anni per documenti falsi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questo fatto, unito all’incertezza del successivo vaglio giuridico da parte dei magistrati su un reato di terrorismo che non si compie in Italia ma all’estero fa temere che dopo le fanfare del giorno del blitz l’intera questione possa perdere di peso. Tanto più che, a dispetto di quanto affermato dal coordinatore delle indagini, il pm Armando Spataro (lo stesso del caso Abu Omar) in conferenza stampa, non è affatto vero che il metodo europeo di contrasto all’eversione jihadista stia dando così tanti frutti.
Ne è prova la notizia che sta oggi sulla prima pagina de “El pais”, quotidiano di certo non conservatore nell’attuale quadro poltico della Spagna di Zapatero, che rivela quali siano stati i retroscena dell’assoluzione di “Mohammed el egipcio”. Al secolo Rabei Osman El Sayed Ahmed, ritenuto la mente degli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid che fecero quasi 200 morti. Ebbene, El Sayed è stato assolto, secondo la motivazione depositata dal tribunale spagnolo, perché considerato già giudicato e condannato defintivamente per lo stesso reato in Italia. E quindi in virtù del principio del “ne bis in idem”. Un enorme abbaglio, come viene oggi giudicato dal quotidiano spagnolo azionista di “Repubblica”. In Italia infatti, questo terrorista è stato condannato solo in primo grado. E a dieci anni di carcere, non di certo la pena che voleva comminargli la corte spagnola. Un banale errore di coordinamento tra la magistratura italiana e quella spagnola che dimostra però quanto ancora ci sia da fare nel metodo europeo della lotta al terrorismo islamico. Ma, come accennato, anche tra gli uomini del blitz meneghino uno pare sia già sotto processo per un analogo reato di reclutamento di kamikaze compiuto nel 2002, pochi mesi dopo l’11 settembre. E anche questa circostanza può essere letta come una prova che nel metodo europeo c’è più di qualcosa che non funziona se gli stessi nomi a distanza di pochi anni si ritrovano in analoghe inchieste che riguardano l’internazionale della jihad.