In Serbia c’è il rischio di una svolta autoritaria
25 Febbraio 2008
L’opinione più comune
sulle recenti violente proteste a Belgrado è che un gruppetto di hooligans ha
rovinato la manifestazione di popolo convocata per esprimere l’orgoglio
nazionale serbo in modo pacifico e dignitoso. E’ una distinzione questa che ha
delle implicazioni retoriche e politiche importanti. Il Primo Ministro Vojslav
Kostunica l’ha usata per evitare una condanna esplicita della violenza.
Si è limitato infatti a lamentarsi di come il comportamento di pochi abbia
danneggiato la causa nazionale serba, facendo contenti i suoi nemici. Per lui è
importante invece che “la gioventù serba abbia dimostrato di volere la legge,
la pace e la libertà”.
Scrivendo da Cambridge, Mladen
Tosic gli fa eco, trovando che l’intera giornata di giovedì scorso sia
stata un’ispirazione. Certo, la folla ha attaccato e bruciato l’ambasciata americana
e quelle di Croazia, Bosnia e Canada, paesi che non hanno riconosciuto
l’indipendenza del Kosovo. Certo, la polizia è intervenuta tardi, con una
risposta studiatamente inefficace a una violenza del tutto prevista. Eppure,
Tosic sostiene che tutto ciò non può rovinare l’evento. Citando Branko Kovacevic,
il rettore dell’Università di Belgrado, dice che il fatto da ricordare è la
manifestazione di massa, che si è comportata come un “parlamento del popolo”.
Prendiamo sul serio
questo commento, per capovolgere il giudizio sugli eventi. Ciò di cui ci
dobbiamo preoccupare, se ci interessa il futuro della democrazia in Serbia, è
precisamente la coreografia della manifestazione di massa e l’uso politico che
ne è stato fatto da Kostunica e Tomislav Nikolic, il leader del Partito
Radicale, il primo partito della Serbia. Questi due politici nazionalisti sono
intenzionati a concentrate il potere e a marginalizzare anche la tiepida
opposizione del Presidente Boris Tadic. sostenendo di godere del pieno sostegno del “parlamento del popolo”.
Il modello è ben noto.
Alla fine degli anni 80, Milosevic legittimò il consolidamento del proprio
potere cavalcando la “rivoluzione anti-burocratica”, una serie di raduni populistici
in parte orchestrati dal governo. Oggi, come venti anni fa, la questione cruciale
è il rapporto esistenziale della Serbia con il Kosovo.
La storia non si ripete
mai nella stessa maniera, ma le somiglianza con il passato sono notevoli. Non
potrebbe essere diversamente: i protagonisti sono spesso gli stessi.
Nikolic fu il vice di
Milosevic. Oggi sostituisce Vojslav Seselj, che all’Aja è incriminato di
crimini di guerra, alla testa del Partito Radicale. Lui stesso è sospettato
dall’Humanitarian
Law Center di aver partecipato ad azioni criminali nella guerra con la Croazia. A sostituire l’anziano e malato patriarcha
ortodosso Pavle nella celebrazione solenne di giovedì scorso, c’era il vescovo
Amfilohjie, un sostenitore entusiasta di Milosevic che una volta espresse la
sua ammirazione per Radovan Karadzic e la sua sfida agli accordi di pace siglati
a Dayton.
A Belgrado si dice che il
discorso infiammatorio ma anche lirico pronunciato da Kostunica alla manifestazione sia stato
scritto dal poeta Matija Beckovic. Potrebbe essere vero. Altro sostenitore
entusiasta di Milosevic, nel 1987 Beckovic scrisse in una poesia sul Kosovo: “Dove potremmo andarcene
con il monastero di Decani? Dove portare il monastero di Pec?”. Giovedì scorso Kostunica ha
gridato: “Nessuno potrà mai farci dire che il patriarcato di Pec non è il
nostro, che il monastero di Decani e di Gracanica non sono nostri!”.
Perfino la folla senza
nome degli hooligans è nota, purtroppo. Non sono dei semplici delinquenti. Il
sociologo Ivan Colovic ha già notato – nel libro The Politics of Symbol in Serbia – come agli inizi delle guerre
dell’ex-Yugoslavia la violenza si trasferì dagli stadi ai campi di battaglia
una volta che i temi dell’identità
etnica e della grande Serbia cominciarono a dominare il folklore dei fan del
calcio.
Oggi siamo di fronte alla
stessa follia nazionalista che negli
anni 90 diresse l’apparato repressivo dello stato serbo contro il Kosovo
e causò danni irreparabili a generazioni di albanesi. Un’amnesia assurda si è
impadronita del discorso dominante sull’indipendenza del Kosovo in Occidente, e
troppo spesso non si fa più menzione delle perdite sofferte da una nazione che
all’improvviso fu privata di tutti i suoi diritti, i cui cittadini furono
forzati in massa a lavorare nell’economia informale, e i cui figli furono
confinati a un sistema scolastico improvvisato e inadeguato. Per completare
questo quadro, dobbiamo aggiungere che nel 1998 Belgrado sguinzagliò la polizia
e l’esercito contro gli albanesi con una brutalità inusitata, e provocò
l’intervento NATO. Il resto lo conosciamo. Nessuno ha rubato il Kosovo alla
Serbia. La Serbia ha perso il Kosovo tutta da sola.
Nonostante la retorica,
non ci possono essere equivoci su quali siano le intenzioni di Kostunica e del
suo governo. L’ideologia fondamentalista che lega l’esistenza della Serbia a
una visione altamente romantica della storia medievale del Kosovo incoraggia
attivamente la violenza contro chiunque non sia d’accordo, dovunque esso si
trovi. Questa ideologia non si cura
della legge. Per Kostunica, la legge internazionale e la risoluzione dell’ONU
1244 sono come il menù di un ristorante dove può scegliere solo quello che gli
piace: la sovranità sì, l’autodeterminazione, i diritti umani e il rispetto del
tribunale dell’Aja no.
Infatti, la Serbia non ha
mai messo in atto le prescrizioni della tanto invocata 1244. Ha boicottato
tutte le elezioni che dal 2001 si svolgono in Kosovo sotto l’egida delle
Nazioni Unite. E adesso ha ordinato a tutti gli impiegati serbi delle
istituzioni locali e internazionali – principalmente la polizia e i tribunali –
di lasciare il proprio posto.
Molti commentatori dicono
che la Serbia deve scegliere tra l’ingresso nell’UE o l’avvicinamento alla
Russia. Stando ad Andrej
Nosovo e Dragan Popovic, sembra che la Serbia abbia già perso l’ennesima
chance di scegliere un futuro democratico, questa volta a causa della svolta
autoritaria imposta da Kostunica. Nel 2003, un clima da linciaggio politico
portò all’assassinio di Zoran Djindjic, il primo e unico leader serbo veramente
pro-occidentale. I tempi oggi sono specialmente pericolosi per il nemico
interno: gli attivisti dei diritti umani, i media indipendenti e il Partito
Liberale. Sono loro che hanno bisogno del nostro aiuto.