Alla Fiera del libro di Torino fa da protagonista l’odio contro Israele

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Alla Fiera del libro di Torino fa da protagonista l’odio contro Israele

28 Gennaio 2008

Mentre il fiume di polemiche sulla mancata visita di
Benedetto XVI all’Università “La Sapienza” di Roma sembra stemperarsi, presto
temi come “libertà d’espressione” e “opinioni altrui” potrebbero tornare alla
ribalta della cronaca. Le avvisaglie, già ci sono: anche in questo caso, si
inizia a parlare di “boicottaggio” e “contromanifestazioni”. Casus belli non è
più il Santo Padre, ma qualcuno molto più avvezzo alla polemica: lo Stato
d’Israele. La causa palestinese e il trattamento riservato alla popolazione di
Gaza hanno in questa querelle un ruolo indiretto: ad essere messa in
discussione, prima di tutto, è infatti la partecipazione di un manipolo di
scrittori e intellettuali israeliani alla Fiera del libro di Torino (che si
svolgerà dall’8 al 12 maggio 2008).

Tutto ha inizio sul finire del 2007 quando, come da consuetudine, gli
organizzatori dell’annuale Fiera del libro hanno presentato la nuova edizione
della kermesse letteraria. Tema del 2008 sarà una domanda posta da Dostoevskij,
“Ci salverà la bellezza?”: fin qui, tutto bene. La Fiera di Torino, però, ha
una felice peculiarità: ogni anno focalizza la sua attenzione sulla scena
letteraria di un determinato Paese. Negli anni passati è stata la volta di
Stati come Portogallo, Grecia, Canada e Olanda: tutti rappresentati dai loro
migliori scrittori e pensatori. Per l’edizione 2008 – e qui sorgono i problemi
– il paese ospite sarà lo scomodo, scomodissimo Israele: “In occasione della
ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino
come la vetrina più adatta per far conoscere e discutere la propria identità
culturale. La letteratura israeliana gode da anni di un’attenzione crescente,
che si è cristallizzata attorno ai nomi di tre dei suoi maggiori
rappresentanti, David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua, o a scrittori che
appartengono alla generazione successiva, come Etgar Keret” recita il
comunicato ufficiale, ricordando come “i temi trattati nelle loro opere hanno
assunto una valenza universale, che non riguarda soltanto Israele, ma si
pongono come altrettante metafore dei dilemmi e delle contraddizioni che
agitano il mondo contemporaneo”.

In apparenza, una splendida iniziativa: la Fiera di Torino darà la possibilità
a tutti gli italiani di conoscere da vicino, nel sessantesimo anniversario della
sua fondazione, lo Stato di Israele e la sua eccezionale letteratura. Ma c’è un
problema: in Italia non si può parlare di Israele – o far parlare Israele –
senza invitare anche la controparte palestinese. Non importa che si stia
parlando di libri e di letteratura, non importa che Torino non sia il tavolo
%0Adelle trattative di Annapolis: se un israeliano parla di qualcosa – dai libri
alle ricette di cucina –, un palestinese deve poter ribattere.

Le associazioni solidali alla causa palestinese mostrano subito di non gradire.
Già a dicembre Forumpalestina lancia l’idea del boicottaggio, da definire nelle
sue linee concrete in una riunione prevista ai primi di febbraio. Intanto parte
la campagna mediatica, giocata principalmente su internet. Si annunciano defezioni:
quella del poeta Aharon Shabtai – “che ha chiesto di essere cancellato dalla
lista degli invitati” spiega Forumpalestina “perchè non vuole essere tra gli
scrittori rappresentanti Israele” – e quella degli scrittori giordani –
riunitisi appositamente per definire una strategia comune.

E poi si discute dei massimi sistemi, cioè dell’opportunità di invitare un
simile Stato a una delle maggiori manifestazioni culturali italiane. Sergio
Cararo (cofondatore del Forumpalestina) spiega che “a essere contestata è la
decisione di dedicare questa edizione ad uno stato come Israele in occasione
dei sessanta anni dalla sua nascita, cioè di un evento che nessuno può omettere
nelle sue ricadute concrete sui diritti dei palestinesi che la definiscono
appunto come Nakba (la catastrofe)”, per di più in un periodo in cui “la
politica di oppressione coloniale, di discriminazione razziale e di
“politicidio” (per usare le parole di Kemmerling) contro i palestinesi è
diventata ancora più spietata e ‘normale’ di quanto lo fosse anni fa”. E se
qualcuno – come il democratico Caldarola, per il quale “certa sinistra cova
un’avversione per Israele che confina con l’antisemitismo” – prova a difendere
la scelta della Fiera, ci pensa Abu Dawood (vicepresidente della comunità
palestinese di Roma e del Lazio) a definirlo “l’agente dello stato Razzista e
pirata”.

A un livello più istituzionale, la sinistra si divide. Secondo Vincenzo Chieppa
(Pdci) Israele si può invitare, a patto però che “si aggiunga come ulteriore
ospite d’onore l’Autorità palestinese”. Sempre secondo Caldarola, invece, “ci
sono settori della sinistra che considerano interlocutori necessari Hamas ed
Hezbollah. Sì, parlo proprio di D’Alema e della sua sbagliatissima
equivicinanza”. Lo storico Giovanni De Luna, ex di Lotta Continua, media invece
tra le diverse posizioni: “Sono critiche da integralisti, frutto di pregiudizi
anche pericolosi. Io sono totalmente dalla parte dei palestinesi. Per questo
chiedo che si faccia della presenza di Israele una grande occasione di confronto”.
Critiche montanti, alle quali il direttore della Fiera Ernesto Ferrero ha
risposto su “La Stampa”: Israele “possiede una libera cultura, che ha
dimostrato di saper essere indipendente da condizionamenti governativi” e di
questi tempi “l’unica strada che ci resta, in un’epoca segnata dall’ingiustizia
e dalla violenza, resta quella del confronto, del dialogo e della ricerca
comune”.

Negli ambienti più propensi all’ipotesi del boicottaggio, ha provocato sgomento un editoriale di Valentino Parlato,
apparso sul “Manifesto” il 24 gennaio. Già il titolo è eloquente: “Un
boicottaggio sbagliato”. La contrarietà di Parlato – che difficilmente potrà
essere tacciato come agente sionista