L’italian way of war (e le sue conseguenze)
03 Febbraio 2008
di Anna Bono
In
Italia ormai anche la guerra deve essere ‘politicamente corretta’. Perciò si
vorrebbe addirittura che la forza impiegata dai nostri soldati fosse
proporzionata a quella di cui è dotato il nemico: come se, quando scoppia un
conflitto, non ci fosse in gioco la vita di chi sta combattendo e come se
l’obiettivo dei contendenti non fosse la sconfitta dell’avversario; e, perciò,
si aprono inchieste giudiziarie per chiarire le condizioni in cui i militari
italiani uccidono durante gli scontri a fuoco: dunque, siamo una nazione che
non soltanto è incapace di sopportare delle perdite in battaglia, ma che non
ammette neppure di infliggerne ai nemici.
Difatti, i nostri governi da anni
negano che i contingenti italiani impegnati su fronti di guerra partecipino
direttamente ad azioni offensive, cosa che in realtà avviene, e quasi a
malincuore ne riconoscono il compito di supporto agli eserciti alleati durante
gli attacchi condotti da questi ultimi. Si è arrivati persino al paradosso
linguistico di parlare di guerra senza mai usare questo termine e usando al
posto forme lessicali che includono tutte la parola ‘pace’, cioè il suo
contrario: i nostri sono “soldati di pace” che svolgono “operazioni di pace” o,
in alternativa, “missioni umanitarie”. Per dimostrarlo, si attua una costante
selezione delle immagini e delle informazioni tesa a presentarli sempre intenti
ad attività assistenziali a beneficio delle popolazioni locali.
Conseguentemente, anche la parola ‘nemico’ è bandita dal vocabolario dei
politici e dei vertici militari: nei comunicati stampa si preferiscono
espressioni quali “uomini armati”, “elementi ostili”, “forze non identificate”.
Di
questo singolare modo italiano di condurre la guerra, e delle sue conseguenze, parla ‘Iraq-Afghanistan. Guerre
di pace italiane’, il libro del giornalista ed esperto di difesa Gianandrea Gaiani appena
pubblicato dalla casa editrice Studio LT2. Come suggerisce il titolo, l’analisi
verte soprattutto sulle modalità di svolgimento delle due missioni alle quali
l’Italia ha partecipato dopo aver aderito, all’indomani degli attentati dell’11
settembre 2001, all’alleanza dei paesi minacciati dal terrorismo islamico. È
infatti su queste due missioni che ha pesato maggiormente l’influenza dello
schieramento antioccidentale sostenuto dai partiti di estrema sinistra e
principale responsabile di questa atipica italian way of war: uno schieramento che, dopo l’11
settembre, è diventato un vero e proprio fronte interno, capace di convincere
vasti strati dell’opinione pubblica e di incidere sulle scelte del governo
italiano in materia di politica estera e di difesa.
Si
devono al governo Berlusconi i primi caveat che hanno limitato
l’operatività delle nostre truppe in Afghanistan, benché l’esecutivo di
centro-destra certo non dubitasse dell’utilità di liberare Kabul dai talebani e
ancor meno dell’appartenenza dell’Italia all’Occidente e della realtà della
guerra dichiarata da al Qaeda alla nostra civiltà. Poi, con la vittoria
nel 2006 della coalizione guidata da Romano Prodi, che ha portato al governo i
portavoce delle formazioni antioccidentali e no global, la collocazione del
nostro paese è diventata meno netta e si è accentuata la pericolosa posizione
di faglia che l’Italia occupa a causa delle divisioni politiche e sociali che
la caratterizzano.
Il
consenso alla guerra contro il terrorismo islamico si è quindi ridotto con
ulteriori ripercussioni negative sul piano militare, ben documentate nella
precisa e dettagliata ricostruzione di Gianandrea Gaiani. Il quadro che ne
risulta è estremamente allarmante: per vincere bisogna almeno sapere di essere
in guerra; per vincere riducendo al minimo i costi umani ed economici, bisogna
dotare i propri combattenti di tutto il potenziale offensivo disponibile e
permettere che lo usino secondo necessità. Finora l’Italia non lo ha fatto.
Gianandrea Gaiani, ‘Iraq-Afghanistan. Guerre di pace italiane’, Studio LT2, 2008, pp. 260, € 18