L’Afghanistan di Karzai condanna a morte un giornalista
01 Febbraio 2008
Lo scorso 27 ottobre, l’aspirante giornalista Sayed
Perwiz Kambaksh è stato condannato a morte dal tribunale di Mazar-e-Sharif per
aver fatto circolare tra i suoi colleghi studenti della Balkh University un
documento contenente affermazioni ingiuriose e blasfeme sulla religione
islamica e sul trattamento riservato alle donne afghane. Alla sentenza, emanata
il 22 gennaio senza che all’imputato fosse data la possibilità di difendersi
legalmente, si può forse ancora porre rimedio, ma i mullah afghani – che non
tollerano influenze esterne nei loro affari – spingono per eseguire la condanna
nel più breve tempo possibile.
Kambaksh, sarebbe stato arrestato e condannato a
morte per blasfemia durante un processo sommario istituito da una corte
islamica della provincia di Mazar-e-Sharif
secondo le leggi della giurisprudenza Hanafi, per aver distribuito ai suoi
colleghi universitari il documento in questione. Ma in ballo ci sarebbe anche
la volontà di intimidire il fratello, Ibrahimi, un noto militante per i diritti
umani. E’ lo stesso Ibrahimi a confessare di essere “stato ripetutamente
minacciato durante il mio lavoro con l’IWPR… Scrivo di violazioni dei diritti
umani nel nord riguardo gli scontri tra le varie fazioni. Questa è la mia professione, ho ignorato le minacce e
sono andato avanti col mio lavoro”.
Lo conferma anche
Jean MacKenzie, la direttrice del programma dell’Institute for War And
Peace Reporting in Afghanistan in un suo recente articolo: “Un affermato
giornalista nell’Afghanistan del nord dichiara che suo fratello è stato
arrestato con false accuse in modo da esercitare pressione su di lui per non
fargli più scrivere articoli critici riguardo a funzionari locali e uomini
forti”.
L’IWPR è un istituto londinese che si occupa di fare
informazione – nei paesi in cui esiste una situazione sociale e civile
drammatica come quella afghana – non tanto su quello che accade dal punto di
vista militare ma sulle ripercussioni che le guerre comportano a livello
umanitario.
Ibrahimi ha recentemente dovuto sopportare chiamate
di minaccia anonime che gli intimavano di smettere di “dare fastidio”. La sua
colpa maggiore è quella di essersi dedicato a scrivere sui gruppi armati che
stanno facendo il bello e il cattivo tempo nel nord del paese. Per esempio, già
in un articolo del 2004, Ibrahimi scriveva: “Nel nord ci sono centinaia di
persone le quali dichiarano che le loro proprietà sono state prese con la forza
dai comandanti locali. Un uomo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco durante
un battibecco riguardante la proprietà terriera”. In altri articoli, Ibrahimi parlava dei
problemi collegati alla coltivazione dell’oppio. Insomma, sempre secondo Jean
McKenzie, “egli ha continuamente coperto tematiche di estrema sensibilità”.
Il passaggio più importante da tenere a mente, però,
è il seguente: “Negli ultimi mesi [Ibrahimi] ha pubblicato diversi reportage
che identificano sia fazioni che individui accusati dai residenti locali di
crimini e brutalità”. Probabilmente è questo che ha comportato
l’imprigionamento del fratello più piccolo.
Anche perché, “le persone che mi stanno minacciando
non hanno niente di ufficiale contro di me… Non c’era niente che potessero
utilizzare per arrestarmi”, ha dichiarato Ibrahimi, il quale deve aver
certamente toccato un nervo scoperto durante le sue inchieste sulla corruzione
del governo centrale, e il potere che i talebani esercitano ancora nel nord del
paese. Le accuse contro il fratello, infatti, non stanno in piedi né tantomeno
giustificano una condanna a morte. Secondo le autorità, il reato consiste
nell’aver scaricato un documento da internet e averlo fatto circolare tra gli
studenti della sua università. Stando a
quello che dice Sayed, invece, il suo nome sarebbe stato aggiunto al documento
in questione in un secondo momento, dopo la stampa. Sayed non ha precedenti
penali di alcun tipo e non c’è motivo di dubitare delle sue affermazioni.
Il problema è che rimane ben poco da fare per salvare
la sua vita. Infatti il responsabile “legale” di quella sentenza, Sibghatullah
Mojaddedi, è uno degli alleati chiave di Karzai. Non solo. Il Senato afgano ha
anche formalmente attaccato la comunità internazionale che ha osato esercitare
pressioni diplomatiche sul loro capo, incalzando allo stesso tempo il
Presidente affinché non si lasci distrarre da punti di vista decisamente
anti-islamici.
Il
Dipartimento di Stato americano, da par suo, ha espresso grande preoccupazione.
Il portavoce Tom Casey ha parlato di “sentenza emessa nei confronti di un
giornalista nell’esercizio della sua professione. Siamo fortemente contrari a
qualsiasi azione che possa limitare la libertà di stampa”. Anche il Parlamento
Europeo ha fatto pervenire una lettera (purtroppo senza ottenere risposte) al
governo di Kabul. Poi c’è l’ONU che ha fatto pressione sul governo di Karzai
affinché si possa rivedere la sentenza. Il quotidiano britannico
The Indipendent ha infine lanciato
una petizione online
per esercitare una pressione sul ministero degli Esteri afgano affinché
riveda la sentenza di morte.
Sul
versante interno afghano, il presidente dell’Associazione dei
Giornalisti Afgani Indipendenti, Rahimullah Samander si espresso contro la
decisione del Senato: “Questo non è giusto, è illegale. [Sayed] ha soltanto
stampato una copia di qualcosa che poi ha visto e ha letto. Come possiamo
credere in questa ‘democrazia’ se non possiamo nemmeno leggere, e non possiamo
nemmeno studiare? Chiediamo al Signor Karzai di invalidare la sentenza di morte
prima che sia troppo tardi”. Da registrare, infine, manifestazioni a Kabul sia
pro che contro la condanna a morte.