2/ Far ripartire la crescita economica e aumentare il potere di acquisto dei lavoratori

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2/ Far ripartire la crescita economica e aumentare il potere di acquisto dei lavoratori

05 Marzo 2008

In un elenco delle priorità del Paese, il “problema” economico, riassumibile in crescita per le imprese e aumento dei salari per i lavoratori, è quello a maggiore sensibilità elettorale. È forse il problema dei problemi, su cui da anni si confrontano scuole di pensiero diverse, se non confliggenti.

Il combinato disposto tra scenario congiunturale, che si annuncia fosco, e il limite massimo del 3% nel rapporto Deficit/PIL, previsto dall’UE, impone di adottare misure che siano sì coraggiose, ma soprattutto efficaci. Se è vero (lo è!) che la nostra è un’economia frenata da una complicazione legislativa e burocratica combinata a una pessima qualità della spesa pubblica (ma di questo parleremo nella prossima puntata di questa rubrica) il tentativo di ribaltare il lento declino dell’economia nazionale dovrebbe passare per due direttrici fondamentali:

-Attuare una vera semplificazione tributaria che liberi risorse e consenta alle imprese di pianificare investimenti nel medio lungo periodo, e permetta ai lavoratori di avere maggiore disponibilità economica;
– Razionalizzare la spesa pubblica riducendo gli sprechi per consentire investimenti pubblici nelle infrastrutture.

Prendendo in considerazione (per ragioni di spazio) solo la prima delle due, è emerso dall’analisi compiuta dagli esperti del Centro Studi della Fondazione Magna Carta che la legislazione in materia fiscale, non solo varia in continuazione, costringendo le imprese a rivedere le valutazioni di convenienza delle proprie strategie, ma sempre più spesso contiene innovazioni normative che hanno una natura sostanzialmente retroattiva, determinando così il regime fiscale di scelte già compiute dall’impresa.  Si pensi a un’azienda che abbia pianificato un piano di investimenti a un regime fiscale di vantaggio e che tale regime venga mutato dopo qualche anno, annullando in tutto o in parte i benefici che avevano indotto l’imprenditore a ritenere conveniente, in quel dato momento, un investimento che invece diventa se non fallimentare, certamente “in perdita” a causa dei bisogni di cassa dello Stato. Bisogni, come sappiamo, troppo spesso soddisfatti da nuove imposizioni fiscali. La questione è annosa, e denuncia la difficoltà del “politico” a privarsi forse di un comodo strumento utile, ma solo nel breve periodo, a governare gli equilibri di politica economica, evitando però di realizzare riforme definitive che cambino il corso della nostra economia (la perdita della cosiddetta “leva monetaria” che consentiva ai governi di svalutare la lira creando le “famigerate” svalutazioni competitive che consentivano di dopare il livello di export del Paese rimandando, di fatto, al nostro presente  il problema  di come risolvere il deficit di competitività del sistema economico nazionale).

Appare quindi inderogabile  fissare in Costituzione il principio di non retroattività delle norme tributarie, in modo da rendere impossibile la semplice eccezione da parte della legislazione ordinaria. Una soluzione del genere oltre a rispondere ai fondamentali principi dello stato di diritto avrebbe anche l’indubbio beneficio di arginare la prepotenza dello Stato Fiscale, ostacolando il ricorso alla leva fiscale per far fronte a situazioni di temporaneo bisogno finanziario, costringendolo a una politica virtuosa.

A ciò si accompagna l’urgenza di semplificare e ridurre il peso del fisco sul reddito da lavoro dipendente e su quello delle imprese. È importante poterlo fare in maniera sostenibile evitando roboanti effetti annuncio, ma che forniscano nel medio periodo (l’arco di una legislatura) rimedi consolidati.

Se si adotta una filosofia “produttivista”, nel senso cioè di orientare le scelte di politica economica a favorire l’aumento della produttività del sistema economico diventa logico intervenire sulla diminuzione dell’IRES per le imprese, un’imposta che investe l’area in cui la concorrenza fiscale internazionale crea più problemi. Al riguardo, è pienamente sostenibile una riduzione di 5 punti, da attuare in cinque anni con un punto all’anno, mediante una legge da varare subito che predetermini i ribassi annuali. A ciò si unisce la proposta di abolizione dell’IRAP, una imposta irrazionale che grava su un assieme eterogeneo di redditi di impresa e di lavoro autonomo e sui redditi di lavoro al lordo dei contributi, pagati da tali soggetti, senza possibilità di detrarre tale tassazione del lavoro dal costo di produzione. La sola giustificazione di questo tributo sta nel gettito che dà alle regioni (e in piccola parte agli enti locali) e che serve, per il 50 % del suo gettito, per finanziare la spesa sanitaria.  L’IRAP  ha una pressione pari al 2 % del Pil, cioè circa 30 miliardi di euro. Nonostante la sua rilevanza per la finanza autonoma regionale e per il finanziamento del sistema sanitario regionale, essa può essere abolita, senza compromettere tali funzioni  finanziarie, mediante una riforma che la trasformi:

1. in una addizionale all’imposta sul reddito lordo di impresa, con le attuali aliquote, per quel che riguarda il reddito al lordo di interessi delle società  e delle imprese personali;

2. in un contribuito sanitario regionale (CSAR) per quel che riguarda l’aliquota sul reddito del lavoro autonomo e sul costo del lavoro, al lordo di contributi del lavoro dipendente da trasformare in aliquota equivalente sul costo del lavoro netto di contributi.

Le conseguenze di ciò sono:

– una rilevante semplificazione del sistema di tassazione;

-la trasparenza del finanziamento della sanità;

– la detraibilità dell’addizionale locale all’Ires, per le società internazionali con riguardo ai trattati sulla doppia imposizione, con conseguente agevolazione  fiscale all’investimento estero in Italia;

– la detraibilità del contributo sanitario sui costi del lavoro dai costi dell’impresa e del lavoro autonomo.

La norma di detrazione dell’IRAP sul costo del lavoro dall’imponibile di IRES, trasformata in CSAR, comporta una perdita di gettito che si può stimare in 0,27% del Pil. Pienamente sostenibile con una politica di lotta agli sprechi e di razionalizzazione della spesa pubblica.

Per quanto invece riguarda l’esigenza di garantire ai lavoratori dipendenti maggiori disponibilità economiche dal proprio lavoro se appare evidente che un innalzamento generale del livello dei salari potrà avvenire solo medio-lungo periodo come risultato di una spirale virtuosa che migliori le condizioni del sistema economico, l’unico “rimedio” sostenibile nel breve periodo è quello della detassazione delle ore di lavoro straordinarie. In una sorta di patto imprese-lavoratori che garantisca un aumento della produttività premiato con una busta paga molto più piena.

Le proposte di Magna Carta a favore delle imprese e dei lavoratori:

–  Riduzione dell’IRES: 5 punti in 5 anni. Garantire il mondo delle imprese attraverso una Legge che predetermini per ogni anno (per 5 anni) i ribassi, in modo tale da favorire gli investimenti di medio e lungo periodo, che così diventeranno più convenienti. Una simile operazione, se attuata subito, per legge, da un governo con maggioranza stabile, oltreché valere in termini strutturali, può avere immediata efficacia anche dal punto di vista congiunturale.

–  Ridurre il tributo di registro sugli immobili  all’1 % sul  valore  di mercato, per le vendite ordinarie  e della metà per quella della prima casa,  mentre si applicherà l’Iva  per le  vendite fra operatori  commerciali. La perdita di gettito (circa 2 miliardi, 0,16% del Pil) verrebbe recuperata mediante la revisione dei valori catastali; poiché l’aumento di gettito dell’ICI (ovviamente la prima casa ne sarebbe esente) che ne conseguirebbe affluisce ai Comuni, i trasferimenti dello Stato agli enti locali dovrebbero ridursi di conseguenza.

– Dimezzare fino alla progressiva eliminazione l’aliquota fiscale e contributiva sulle retribuzioni delle ore straordinarie, d’intesa con il sindacato a livello nazionale e/o aziendale. La proposta è, tendenzialmente, a costo nullo, perché si aumenterebbero le ore di straordinario lavorate e per le imprese si accrescerebbe la produttività, il reddito e gli utili da tassare.

– Abolire  l’IRAP e sostituire con:

1) addizionale all’imposta sul reddito lordo d’impresa per società e imprese personali;

2) contributo sanitario da destinare alle regioni (CSAR) da prelevare sul reddito da lavoro autonomo e sul costo del lavoro dipendente, che sarà detraibile dal reddito d’impresa. La detraibilità comporterebbe una perdita di gettito per lo Stato stimata, a regime, nell’ordine dello 0,27% del PIL.

*Beppe Lanzilotta è il Segretario generale della Fondazione Magna Carta