Mentre la Libia affonda Gheddafi torna a fare il “cane pazzo” in tv
21 Febbraio 2011
Ormai in Libia è guerra civile. A Tripoli è stata saccheggiata la sede della tv di Stato, mentre altri edifici governativi sono stati dati alle fiamme. Il bilancio delle vittime stimato da Human Rights Watch è arrivato a quota 233. Secondo Al Jazeera le forze aeree hanno bombardato la folla che a Tripoli partecipava ai funerali delle vittime degli scontri, causando altri 250 morti. Stanotte il Colonnello Gheddafi è riapparso in televisione, attaccando i media occidentali e i nemici del Paese in un breve intervento durato una manciata di secondi.
Caduta Bengasi, Sirte e altre città sono in rivolta. Ci sarebbero forti dissidi nei vertici dell’esercito libico, al punto che sarebbe imminente un golpe militare contro Muammar Gheddafi guidato dal Capo di Stato Maggiore aggiunto, El Mahdi El Arabi. L’informazione arriva sempre dalla televisione del Qatar attraverso una fonte politica libica, che ha parlato sotto la copertura dell’anonimato dalla Gran Bretagna. Con l’arrivo della rivolta a Tripoli, si moltiplicano le defezioni nelle alte sfere del regime. Il ministro della Giustizia libico, Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil, si è dimesso "per l’eccessivo uso della violenza contro i manifestanti" anti-governativi. Gheddafi ha anche perso cinque pezzi nella diplomazia, con le dimissioni degli ambasciatori in Cina, in Gran Bretagna, in Indonesia e in India, oltre al rappresentante presso la Lega araba.
Le cancellerie di mezzo mondo adesso devono pensare, e progettare, il dopo Gheddafi. Nei primissimi giorni di protesta gli analisti ritenevano che La Libia non avrebbe ripercorso le tracce di Egitto e Tunisia. Gheddafi, al contrario di Ben Ali e Mubarak poteva contare sul totale appoggio dei militari. Ma dalle notizie che arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo sembra che unità delle forze armate stiano fraternizzando con i manifestanti. L’apparato di potere del Colonnello non ha retto all’onda d’urto delle proteste. Adesso l’Occidente, Italia in testa, cerca interlocutori a Tripoli. Una scelta sembra averla fatta il ministro degli esteri britannico, William Hague, che ha chiamato il figlio secondogenito del rais, Saif al-Islam. Hague ha telefonato al secondogenito del leader libico Muammar Gheddafi per comunicargli un appello ad avviare un "dialogo" con i manifestanti; a lui ha detto che la repressione violenta delle proteste è "inaccettabile" e provocherà la condanna del resto del mondo.
Seif al-Islam, 38 anni, è stato individuato come il possibile successore, ma anche come elemento "illuminato" del regime, quindi anche il volto più "presentabile" alla comunità internazionale. La possibile "alternativa" nel caso il regime del rais, al potere da 42 anni, non regga nel suo attuale assetto. Seif ha fatto di tutto per accreditarsi, in patria e all’estero, come elemento "riformista" del regime, entrando spesso in conflitto con il suo l’establishment e anche con la famiglia, entrando e uscendo da fasi di isolamento, ma sempre al suo posto.
A lui fa capo una importante Ong, l’unica riconosciuta alla Libia, la Fondazione Caritatevole Gheddafi per lo Sviluppo, con cui ha svolto attività sociale in Libia ma con cui ha gestito anche delicate vertenze internazionali, come l’attentato di Lockerbie, contribuendo alla fine dell’isolamento di Tripoli e allo "sdoganamento" del padre-leader. Sempre a lui fa capo un importante gruppo editoriale privato, le cui testate hanno negli anni recenti aperto una breccia nella pesante cappa pluridecennale del regime libico sull’informazione. L’Al Ghad Media Group controlla tre televisioni e due giornali online, Oea e Qurina, che, rompendo la cappa ferrea imposta all’informazione nel Paese, negli ultimi due hanno prodotto editoriali critici con amministratori e dirigenti e inchieste su argomenti tabù, e hanno addirittura dato informazioni sulle rivolte di questi giorni, sui morti, sulla repressione.
Quanta di questa informazione sia sfuggita al controllo del regime di cui è figlio e quanta sia in realtà "tollerata" non è chiaro. Ma è chiaro che, nell’indecifrabile magma delle prevedibili lotte di potere accelerate dagli eventi, le sue credenziali emergono chiaramente. Se il futuro della Libia è nelle mani di Seif Gheddafi, l’Italia dovrà fare di tutto per costruirsi un interlocutore affidabile. Non solo perché il collasso del regime libico rischia di far riversare sul nostro Paese un esercito di immigrati. C’è un legame di ferro negli affari tra l’Italia e la Libia. Nei rapporti economici l’Italia è al primo posto per l’export e al quinto per l’import da Tripoli, con un interscambio nel primo semestre 2010 che si aggira attorno ai 7 miliardi di euro, con stime superiori ai 12 miliardi per l’intero anno.
Un legame cresciuto sull’asse energetico e che si è rafforzato negli anni dopo la cancellazione dell’embargo nel 2003 e, soprattutto, con la sigla del Trattato di cooperazione e amicizia italo-libico del 2008 (le sanzioni e l’embargo erano stati disposti dall’Unione europea nel 1986 e dall’Onu nel 1992 e rinnovati più volte). Cadute le sanzioni, cessato l’embargo, l’Italia si è trovata in prima linea per siglare nuovi accordi commerciali con la Libia.