L’era della “Rivoluzione democratica” è fatta di speranze dubbi e paura
23 Febbraio 2011
Se qualcuno ancora dubitasse che stiamo vivendo in un’epoca rivoluzionaria, gli ultimi avvenimenti dovrebbero avergli schiarito le idee. Dal Medio Oriente alle Americhe, del Nord e del Sud, la gente chiede un cambio radicale, e fa del suo meglio per cacciare i suoi attuali capi. Alcuni si accontenterebbero di cambiare soltanto quelli, i capi; altri insistono sulla necessità di portare avanti trasformazioni rivoluzionarie. E’ tutto l’insieme di queste grandi insurrezioni “l’evento”, e noi dobbiamo cercare di capirlo secondo questa impostazione, e non facendo un’analisi nazione per nazione, movimento per movimento. E’ vero, ho scritto “Nord America”. Forse non vi siete accorti che i Tea Party sono una parte di tutto questo? Chiedete a Nancy Pelosi: recentemente ha imparato qualcosa riguardo alla caduta di un leader, e alla potenza dei movimenti di massa.
Sebbene ci siano grandissime differenze tra un regime e un altro e tra un movimento insurrezionale e un altro, i regimi che stanno lottando per la loro sopravvivenza e i movimenti che vogliono farli cadere costituiscono un unico fenomeno. Se le nostre università insegnassero la storia reale piuttosto che le ideologie politiche del passato remoto, ci sarebbero più americani in grado di comprenderlo. Il miglior modo di iniziare è prendere in mano uno studio in due volumi scritto da R.R. Palmer tra gli anni Cinquanta e Sessanta e pubblicato nel ‘69, The Age of the Democratic Revolution, 1760-1800, in cui l’autore fa la cronistoria dei movimenti rivoluzionari che sfidarono i vecchi regimi in praticamente ogni paese moderno, dalla Francia agli Stati Uniti alla Polonia e (ebbene sì!) alla Svizzera. Non credo che qualcuno tra i nostri politici l’abbia letto, la buona notizia è che sembra che quel libro sia ancora in vendita. Ringraziamo per questo le edizioni Princeton University.
Palmer osserva che i rivoluzionari democratici erano in contatto tra loro, gli uni traevano insegnamenti dalle esperienze degli altri, e stabilivano piani e strategie di conseguenza. Gestivano questi legami organizzando incontri e, più regolarmente, in via epistolare, talvolta transatlantica (senza poter contare sui “social media” ritenuti tanto importanti per gli avvenimenti attuali). Condividevano un linguaggio comune fatto di parole quali “diritti civili”, “libertà”, “democrazia”, e molti di loro guardavano alla Rivoluzione americana per gli insegnamenti che poteva dare la lotta sostenuta contro la corona britannica. Di fronte a un’insurrezione generale, anche le forze del vecchio ordine misero in comune la propria comprensione degli eventi e le ipotesi su come affrontarli. Inevitabilmente, iniziarono a pensare di trovarsi sotto attacco da parte di una vasta cospirazione; in effetti era vero, ma non nel senso che intendevano loro. C’era stata sicuramente una cospirazione intellettuale e politica (proprio come i “Committees of Correspondence” nell’america prerivoluzionaria), ma non c’era stato, in generale, il ben strutturato sottobosco sovversivo immaginato dai monarchici.
Oggi sta accadendo qualcosa di simile. Il regime iraniano crede che l’opposizione interna sia diretta dall’estero da oscure forze democratiche operanti da Washington, Londra e Gerusalemme, e potete star certi che in questo momento i preoccupati tiranni di Damasco o di Caracas (dove, oggi sono tre settimane, ragazzi e ragazze sono in sciopero della fame all’esterno degli uffici della Organizzazione degli stati americani) sono convinti che dietro a tutto questo ci siano sempre i soliti suggeritori che sussurrano le loro indicazioni in inglese o in ebraico. Non è così, anche se dovrebbe esserlo.
Le vere cospirazioni, oggi come nel Diciottesimo secolo, risiedono nei circoli democratici all’interno delle tirannie, oppure – non lo si è notato un gran ché, finora – nelle mani degli stessi tiranni. I sauditi hanno inviato aiuti a Mubarak, cercando di spingere gli Usa a fare lo stesso. Alcuni di questi aiuti sono noti, sicuramente altri stiano fluendo attraverso canali segreti. Non ho alcun dubbio che iraniani, siriani e turchi stiano coordinando strategie e condividendo informazioni sensibili, così come stanno facendo i membri del network terroristico. Hanno due obiettivi: preservare i regimi islamici che piacciono a loro, e stoppare i loro nemici mettendosi a capo dell’insurrezione per volgerla alle loro mire.
La grande insurrezione vuole detronizzare gli attuali governanti, ma non tutti gli insorti stanno combattendo per la libertà. In effetti, molti di loro sono preparati al martirio, se servisse ad aiutare l’instaurazione di tirannie ancor più terribili, ammantate però della gloria di un nuovo califfato. Le dimostrazioni in Bahrain e Giordania, come anche la sotterranea guerra civile nello Yemen, sono sponsorizzate dai servizi segreti della Repubblica islamica d’Iran, e appoggiate dai killer di Hezbollah, dai reparti della Guardia rivoluzionaria, e dai loro scherani. Abbiamo già assistito al farsi avanti degli islamisti egiziani per reclamare il potere. Andy Mc Carthy ne è giustamente preoccupato.
Al momento è difficile separare i democratici da chi vuole un nuovo califfato, a eccezione del paese più importante – importante rispetto alla libertà dei popoli del Medio Oriente e alla sicurezza dell’America, – ossia l’Iran. Tutti quei sapientoni, al governo o nella stampa, che vanno dicendo che l’opposizione iraniana è stata demolita, sono stati screditati una volta ancora, come già lo furono quando il “movimento verde” invase le strade la prima volta, nel giugno del 2009. Ancor più importante, lo stesso regime – i cui capi si erano convinti d’aver vinto – si rese conto di essersi sbagliato; ed è per questo che i leader del movimento, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, sono stati messi agli arresti domiciliari, e tagliati fuori – almeno, così hanno detto al capo supremo Ali Khamenei e al presidente Ahmadinejad – dal mondo esterno, in particolare dagli iraniani che parteggiano per loro.
Dubito che quell’isolamento sia veramente ermetico; ci sono diversi traditori tra le forze di sicurezza, e un bravo giornalista, Con Coughlin del londinese Telegraph, ha riferito che un alto grado delle Guardie della Rivoluzione avrebbe chiesto per iscritto ai suoi superiori di non ordinare che si spari sui dimostranti. Scrive Coughlin: “Evidenziando l’esistenza di una spaccatura all’interno dei vertici governativi della Repubblica islamica circa il modo di gestire la protesta, quella lettera è circolata a lungo tra i circoli delle Guardie della Rivoluzione, il corpo responsabile della difesa del sistema religioso. La lettera, che il Daily Telegraph ha avuto in visione, è diretta al maggior generale Mohammad Ali Jafari, ufficiale al comando delle Guardie. Lo si esorta a emanare disposizioni per le guardie e per i miliziani Basij che impongano restrizioni quando si ha che fare con proteste di piazza”.
Con mia grande soddisfazione, ho avuto una conferma di questa notizia, e nel corso della verifica mi è stato detto che analoghe raccomandazioni sono state espresse anche da comandanti Basij. Se fosse vero, allora la strategia del “pugno di ferro” contro la gente iraniana potrebbe non funzionare tanto bene in futuro. L’opposizione iraniana gode di un vastissimo sostegno interno, e sta ricevendo incoraggiamenti dai leader sciiti iracheni. L’ayatollah Jamal al-Din, seguace del grande ayatollah Sistani di Najaf (probabilmente la figura più stimata della galassia sciita) ha esortato gli iraniani a rovesciare i loro governanti, e restaurare la libertà della loro antichissima terra.
Le sue parole hanno richiamato quelle di Mousavi, e meritano di essere riportate: “Cari fratelli! Non c’è differenza tra un tiranno che indossa una corona, un tiranno che indossa un turbante e un tiranno che indossa il tradizionale copricapo arabo. I tiranni sono tutti la stessa cosa, qualunque siano la loro lingua o il loro stile. Libertà e dignità sono le stesse per ogni popolo. E voi, voi del nobile popolo dell’Iran, siete stati i primi a ribellarvi alla dittatura e alla corruzione, nel 1979. E’ giunto il giorno di riprendervi la vostra dignità, la vostra libertà e le ricchezze del vostro paese dalle grinfie di quei ladri che vi hanno rubato la religione e lo stato”. Parla la voce dell’insurrezione democratica. Se prevale, ci può ancora essere una speranza per una vera rivoluzione democratica su scala globale.
Persino il presidente americano, che è corso incontro ai sindacati del Wisconsin molto più rapidamente di quanto non abbia fatto per i combattenti per la libertà in Iran, sembra incline a credere che il conflitto di classe sia la giusta risposta alla rivolta democratica americana dello scorso novembre. Nessuno sa come si concluderà tutto ciò. Mentre scrivo (è sabato sera) si parla di un bagno di sangue in Libia. Domani, il sangue potrà scorrere in Iran. E’ solo una questione di tempo prima che qualcuno dell’opposizione concluda di aver perduto troppi amici e parenti ad opera degli assassini del regime, e cerchi vendetta. Come più volte da me segnalato, in Iran molti gasdotti e oleodotti continuano a “esplodere” in inverosimili incidenti, mentre gli aerei che trasportano le Guardie rivoluzionarie denunciano un rateo di incidenti insolitamente alto. Del resto, cosa fareste se foste stati a combattere da vicino contro un regime malvagio per due anni, sperando che l’Occidente arrivasse in vostro aiuto, solo per scoprire che l’Occidente sta ancora cercando di raggiungere un accordo con i vostri oppressori? Non credete che anche questa sia una “domanda globale”?
Tratto da Pajamas Media
Traduzione di Enrico De Simone