Punzecchiature postsanremesi
27 Febbraio 2011
Naturalmente ci guardiamo bene dal commentare il lato canoro-musicale della faccenda; già ci hanno pensato in tanti, e comunque saremmo fuori tempo massimo. Vogliamo solo annotare qualche fatterello che fa emergere forte e chiaro il solito andazzo non professionale, caratteristico marchio nostrano, anche dopo 150 anni di indipendenza nazionale. E che nessun altro pare aver notato. Strano.
Primo. I silenzi. Dopo ogni annuncio: titolo del brano…dirige l’orchestra…canta…, arrivano dei silenzi impressionanti, con inevitabile panoramica del teatro in campo lungo, e laggiù sul palcoscenico le figurine dei cantanti che non sanno che fare. Ma lunghi, questi silenzi. Per Gualazzi sono passati 7 (sette) secondi fra la fine degli applausi di cortesia (sempre mosci) e la partenza della musica. Sette secondi, mentre dodici milioni di persone aspettano, sono un’eternità ingiustificabile. Addirittura, prima di sentire Van de Sfroos cantare “Viva l’Italia”, durante questa pausa apocalittica ci è arrivato il toc toc del batterista che dava le due battute fuori. Come nelle serate in cantina. Forse la crisi non consente la spesa delle prove? Mah.
Un’altra cosina che poco ci piace è sentire (di nuovo Van de Sfroos, e tanti altri, naturalmente) il cantante che, appena finito il brano, dice al microfono: “Grazie”. Visto che questa parola non fa parte del testo della canzone, non sarebbe il caso di aspettare dopo gli eventuali applausi? Perché così, sembra solo l’umile espressione di gratitudine del menestrello verso il pubblico che ha avuto la benevolenza di stare ad ascoltarlo. Ma siamo a Sanremo, un po’ di consapevolezza!
I microfoni. Ogni volta che qualcuno prende un microfono e comincia a parlare, il volume non è mai giusto; troppo basso, troppo alto, spento. Ci sembra impossibile, ma forse proprio non gli riesce di mettere un segno sul mixer, e riaprire il microfono sempre a quel livello. Siamo solo nel 2011, di sicuro bisogna aspettare ancora qualche altro anno di progresso tecnologico.
Ci ha fatto sghignazzare il Battiato (“La notte dell’addio”) che faceva finta di dirigere, ma era diretto. Nel senso che era lui a seguire il tempo invece di darlo, alternando con il braccio l’ampio gesto del seminatore mesopotamico (d’altra parte, è o non è un santone?) al mulinello delle mani tipico di chi proprio non sa cosa si fa sul podio.
Giusy Ferreri (“Il cielo in una stanza”). Qualcuno le dica che in italiano esistono anche delle vocali chiuse. Lei non lo sa. E bisognerebbe anche chiedere ad Al Bano come mai trasloca in scena (“Va pensiero”) quell’armadione coperto di pizzo bianco da cui fuoriesce ogni tanto una voce di soprano.
I due comici Luca e Paolo? Petulanti è il massimo che gli possiamo concedere (malgrado la lettura di Gramsci). E pensare che a casa loro sono così bravi. Nulla da aggiungere, tranne che anche a uno dei due abbiamo sentito dire grazie al pubblico che ridacchiava (sempre moscio) dopo una battuta. Un po’ come quelli che ti raccontano una barzelletta e poi te la vogliono spiegare.
Delizioso l’intervento in scena del primo ballerino (o coreografo) mentre Belen intratteneva, per dirle di allungare il brodo, visto che, dietro, non erano ancora pronti.
E, ultima perfidia, non sappiamo chi sono i costumisti (fucilazione per quello/a che ha esposto le gambe della Canalis facendoci crollare un mito), ma chi ha vestito Micaela deve per forza essersi ispirato a Botero.
Magari ce ne sarebbero altre da commentare, ma mica l’abbiamo visto tutto, scherziamo?
Concludiamo, seriamente, con un “Benigni geniale”! Di sicuro ha usato troppe volte la parola “memorabile” (ne abbiamo contate ventisei, poi ci siamo fermati) ma non importa. Quel chiudere con il canto sommesso dell’inno. Grande teatro, davvero.
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