Non saranno i giudici a fermare Geert Wilders

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Non saranno i giudici a fermare Geert Wilders

11 Novembre 2010

Geert Wilders ha paragonato il Corano a Mein Kampf. Nel film "Fitna", ha associato le immagini dell’11 Settembre ai versetti del libro sacro che chiamano i musulmani al Jihad. Sono anni che la giustizia olandese tentenna, fra il desiderio di incastrarlo per aver incitato all’odio razziale e il rispetto del dettato costituzionale sulla libertà di espressione, uno dei valori di cui va più fiera la civiltà occidentale.

Wilders è stato accusato ed assolto, mentre i suoi prosecutori sono stati colti in castagna per aver cercato di manipolare un testimone chiave. Il processo non è finito e nei prossimi giorni verrà decisa la composizione della nuova corte ma l’incertezza dei giudici rischia di compromettere seriamente la credibilità e l’imparzialità del sistema giudiziario in Olanda.

Io non me la prendo con i musulmani, dice Geert, sono contro la religione islamica, e in effetti il Consiglio Europeo fa una distinzione tra le dichiarazioni che incitano al razzismo e all’intolleranza e quelle, altrettanto forti ma lecite, che i leader politici possono usare nelle loro battaglie personali. Ci muoviamo in un labirinto minato. Quali sono queste dichiarazioni? E perché deve deciderlo un giudice?

A intrecciarsi con l’aspetto giudiziario c’è quello politico-culturale. Grazie all’aureola di perseguitato politico che lo circorda, Wilders è riuscito ad acquistare una visibilità mediatica eccezionale. Secondo Daniel Pipes, oggi è "il leader più importante in Europa". Il suo partito in poco tempo è diventato la terza forza olandese e il premier Ritte, un tecnocrate euroatlantico senza particolare appeal, può governare grazie alle scioccanti proposte sull’immigrazione di Geert.

Wilders ha trasformato la minoranza musulmana nel Paese in un potere maggioritario, mentre lui, che invece ha vinto le ultime elezioni, viene percepito come la minoranza oppressa e senza voce. I suoi slogan e le sue strategie dimostrano che sarà pure carismatico ma è innanzitutto machiavellico nel far emergere le contraddizioni del sistema multiculturale.

Nel dopoguerra la pace sociale in Olanda si era basata sul tacito accordo fra il capitalismo industriale e i socialisti che avevano occupato il mondo della cultura, le università e la stampa convinti che attraverso questa egemonia avrebbero determinato, governato e controllato le dinamiche ed il progresso sociale. Dopo il ’68, con l’avanzare degli studi postcoloniali e l’involuzione del concetto di "pluralismo culturale" nel "multikulti", quel patto è saltato.

Cresceva l’insicurezza determinata dalle crisi cicliche dei mercati, e il timore verso i nuovi arrivati, i musulmani, diventava un paradigma culturale. Serviva il classico homo novus, un Cesare arrabbiato che offrisse proposte risolutorie sull’economia e l’immigrazione. Wilders ha dimostrato di avere le qualità per recitare fino in fondo il copione.

Nei giorni scorsi un’altro giudice olandese ha pronunciato una sentenza contro il rapper musulmano Mosheb accusato di aver incitato all’odio e alla violenza in una delle sue canzoni. "Chi sarà il prossimo", il titolo del brano, ricorda l’omicidio di Pim Fortuyn e quello di Theo Van Gogh, annunciando che la terza vittima sarà Wilders. "Chiunque parli dell’islam può essere ammazzato". Una frase molto più grave di quelle attribuite a Geert. Ma anche Mosheb è stato assolto. E’ la libertà di parola, bellezza.