
Da San Vittore alla Siria: foreign fighter Monsef “radicalizzato” in carcere a Milano

20 Febbraio 2017
“Prima di entrare in carcere assumeva droghe, beveva e fumava, quando ne uscì era completamente cambiato e parlava solo di religione”. A parlare è il responsabile dell’associazione Kairos che gestisce comunità per minorenni e maggiorenni “difficili” a Milano e provincia, ascoltato oggi dai giudici come testimone nel processo in contumacia che si sta svolgendo a Milano a carico di Monsef El Mkhayar, accusato di terrorismo internazionale.
Considerato il più giovane foreign fighter, Monsef, oggi 21enne, nato in Marocco e arrivato in Italia poco più che bambino, ora si troverebbe in Siria a combattere per l’Isis e sarebbe responsabile di azioni di reclutamento di suoi compagni conosciuti in Italia. “Abbiamo avuto in carico lui e Tarik Aboula dai servizi sociali del Comune di Milano – ha raccontato il teste -. Monsef aveva comportamenti molto aggressivi, era violento, sempre ai limiti di fatti delinquenziali. Aveva accumulato denunce per spaccio e per un’aggressione a un operatore. È stato con noi dall’aprile del 2010 con varie alternanze di dimissioni dal carcere e un periodo con la zia in Piemonte”.
E, a detta del teste, sarebbe stato proprio un periodo di detenzione in carcera a San Vittore, precisamente tra l’autunno del 2013 e il marzo del 2014, a far cambiare completamente Monsef, facendolo diventare “un’altra persona”. “Da allora – ha dichiarato ancora il testimone – “non beveva più, non fumava, pregava tutti i giorni e faceva discorsi monotematici, sempre più fissato con l’Islam. Quando parlava agli altri di Islam non c’era possibilità di contestarlo”.
“Vieni anche tu in Siria o ti ammazzo”, sarebbe stata la minaccia mossa da El Mkhayar al suo giovane connazionale e compagno di comunità Tarik Aboula per costringerlo ad arruolarsi tra le fila dell’Isis. La vicenda è venuta alla luce grazie alla denuncia del giovane minacciato, che “si è spaventato e per questo si è subito rivolta alla Digos”, ha spiegato il responsabile della comunità. Tuttavia, questo gesto non è servito a tanto, dato che Tarik si è poi saputo che è morto in combattimento in Siria.
“Tarik – continua il teste – era una persona mite, molto tranquilla, che ha fatto il suo percorso in modo encomiabile all’interno della comunità, prendendo la licenza media e poi frequentando un corso professionale da meccanico. Mi sono stupito molto quando ho saputo che era partito per la Siria”. Ma dal processo emerge anche che questa non sarebbe l’unica minaccia di Monsef. In precedenza, ad essere minacciato affinché partisse era stato un ragazzo egiziano, anche lui ospite della comunità.
L’esperienza di Monsef riapre così una questione ormai chiara da tempo: le carceri sono luoghi privilegiati di radicalizzazione e palestre per l’arruolamento alle cellule terroristiche di matrice islamica. Il ministro dell’Interno Minniti, che già conosce bene il fenomeno, prenda appunti dalla vicenda al fine di assumere i dovuti provvedimenti prima che sia troppo tardi.