L’insana voglia occidentale di vendere armi ai cinesi
17 Dicembre 2010
Ci risiamo. Ormai con ciclica cadenza si ripropone il dilemma politico-industriale dell’Occidente. Vendere o non vendere armi e tecnologia ai cinesi? Se vivessimo in un mondo che tenesse ancora in qualche considerazione interessi strategici e sicurezza nazionale la domanda non si porrebbe nemmeno. La Cina è rivale dell’Occidente su tutti i fronti. Sul piano strategico allarga la sua sfera d’influenza, arma i peggiori nemici dell’Occidente, dall’Iran alla Corea del Nord, ed è molto probabile che le ultime provocazioni di Pyongyang contro Seul siano state effettuate con il via libera di Pechino che in ogni caso potrebbe obbligare i nordcoreani a cambiare atteggiamento usando la leva economica… ma non lo fa.
La Cina è nostra rivale nella lotta per conquistare i diritti di sfruttamento delle materie prime e sostiene i peggiori regimi africani pur di ottenere concessioni minerarie che precedentemente erano assegnate a compagnie europee. Come se non bastasse i prodotti cinesi hanno invaso i nostri mercati con effetti devastanti anche sull’occupazione e hanno sommerso i mercati internazionali penalizzando il nostro export. Si potrebbe andare avanti a lungo nell’elencare i motivi per i quali i cinesi sono da considerare avversari, rivali, concorrenti ma non certo partner anche se la classe politica occidentale e soprattutto europea continua a dirci che la Cina è un’opportunità e si affanna a genuflettersi in cambio di contratti che consentiranno ai cinesi di acquisire la nostra tecnologia, copiarla e rivenderla sui nostri mercati a metà prezzo grazie al diffuso impiego di una manodopera che, se avessimo ancora gli attributi, dovremmo chiamare “schiavi” e non “lavoratori”.
Purtroppo Europa e Stati Uniti sono dominati da leadership politiche che misurano la propria levatura dalle commesse che riescono ad ottenere per le proprie industrie senza badare troppo “a chi danno cosa”. E’ stupefacente che questo tipo di approccio, che confonde il ruolo di leader di grandi democrazie occidentali con quello di commesso viaggiatore, sia diventato una vera e propria religione che rischia di far sì che siano le grandi compagnie dei settori strategici (in Italia tutte pubbliche) a fare la politica Estera e di Difesa dell’Occidente al posto dei governi. Da anni molti Paesi (Francia e Italia in testa) tentano di aggirare il traballante embargo europeo in vigore dopo la repressione dei moti di Piazza Tienammen nel 1989.
Anche i governi italiani, di ogni colore, puntano a fare affari vendendo armi ai cinesi. Nel 2004 l’esecutivo Berlusconi mise in cantiere un accordo bilaterale “nel campo della tecnologia e degli equipaggiamenti militari” del quale Analisi Difesa si occupò. L’accordo ratificava quello stipulato nel 1999 a rinnovo di un primo accordo decennale del 1989 bloccato dai fatti di Tienammen e riconosceva “sforzi e successi della Cina in favore della pace e stabilità interna e in tutta l’area orientale“. Come scrivemmo allora, non c’è bisogno di essere sostenitori di Amnesty International o devoti del Dalai Lama per sapere che in Cina torture, detenzioni arbitrarie, assenza di libertà civili e politiche, nonché un massiccio uso di repressioni e della pena capitale (anche per reati d’opinione) continuano a essere quotidiani.
Al di là delle valutazioni etiche non è conveniente sul piano strategico armare i nostri rivali né sul piano commerciale i nostri concorrenti come hanno scoperto a loro spese i russi che si sono visti copiare e poi piazzare sul mercato a prezzo di saldo i Sukhoi 27 venduti anni or sono a Pechino e ribattezzati J-11. Nonostante non ci sia un solo buon motivo per vendere tecnologia militare alla Cina nell’ottobre scorso il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, ha dichiarato in una conferenza all’università Bocconi di Milano che “la Cina potrebbe diventare un campo d’azione per Finmeccanica anche per la parte militare. Noi abbiamo certi limiti dovuti alla legge 185 (che regola le esportazioni militari, ndr). Se ci tolgono questi limiti, la Cina diventa un campo anche per la parte militare. Altrimenti resta un obiettivo per la parte civile". Finmeccanica è già presente in Cina "per quanto riguarda il traffico aereo, i treni e gli elicotteri", ha ricordato Guarguaglini. "E’ un Paese su cui noi puntiamo: l’America ha deciso che possono vendere loro il C-130, il che vorrebbe dire che noi possiamo vendere a Pechino il C27J".
Contrariamente alle precedenti amministrazioni statunitensi, Barack Obama sembra pronto ad aprire alla vendita di tecnologia militare anche a Pechino in cambio di qualche posto di lavoro utile a fermare l’emorragia di consensi di cui soffre l’attuale inquilino della Casa Bianca. Tra i tanti danni che sta provocando la flaccida amministrazione Obama, quello di rimuovere l’Hercules dalla lista dei mezzi e dei sistemi d’arma da non vendere alla Cina potrebbe non essere tra i più lievi. Paradossale che il presidente statunitense non voglia per la sua flotta personale gli elicotteri AW-101 di Finmeccanica ma sia pronto a vendere il C-130J ai cinesi che in pochi anni inonderebbero i mercati mondiali con il clone Y-17 o come diavolo deciderebbero di chiamarlo mentre il C-27J diventerebbe probabilmente l’Y-18. Non è detto che sia una buona idea vendere armi e Mosca, che sta comprando in Italia i blindati Lince (e forse i Freccia e i Centauro) e dalla Francia le navi da assalto anfibio Mistral ma per incassare oggi qualche miliardo vale la pena consegnare hi-tech e mercati a Pechino?