Legge 40. Il testo della sentenza del Tribunale di Cagliari

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Legge 40. Il testo della sentenza del Tribunale di Cagliari

Legge 40. Il testo della sentenza del Tribunale di Cagliari

26 Settembre 2007

TRIBUNALE
DI CAGLIARI

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Cagliari in
composizione monocratica, nella persona del giudice dott.ssa Maria Grazia
Cabitza, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 3336
del ruolo generale degli affari contenziosi civili per l’anno 2007, promossa da

XXXXX e XXXXX, elettivamente domiciliati in
Cagliari, presso lo studio dell’avv. Gabriella Massacci e rappresentati e
difesi, anche disgiuntamente, dall’avv. prof. Luigi Concas e dall’avv.
Gabriella Massacci che li rappresenta e difende,  per procura speciale in calce all’atto di
citazione,

ricorrenti

contro

Azienda U.s.l. n. 8 di Cagliari, con sede in Cagliari, via Logudoro 17, in persona del legale
rappresentante pro tempore,

convenuta

e contro

Monni dott. Giovanni, quale
direttore del Servizio di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale per le
microcitemie facente capo all’Azienda U.s.l. n. 8 di Cagliari, con sede in
Cagliari, via Jenner,

convenuto

e con la partecipazione del

Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore della Repubblica
dott. Mario Marchetti,

intervenuto

La causa è stata assegnata a
decisione sulle seguenti

CONCLUSIONI

Nell’interesse degli attori: voglia il Tribunale:

1.      in via principale dichiarare il
diritto della signora XXXXX alla diagnosi preimpinato, condannando i soggetti
convenuti all’esecuzione di tale diagnosi;

2.      in subordine, sospeso il giudizio
e ferme le conclusioni principali, da accogliere a tempo debito, sollevare la
questione di illegittimità costituzionale nei termini proposti sub II.1;

3.      in ogni caso, con integrale
compensazione delle spese e competenze del giudizio, salvo il caso di
opposizione all’accoglimento delle richieste attoree, nel qual caso condannare
gli opponenti in solido all’integrale ristoro in favore dei conchiudenti, ivi
incluso il ristoro del 12,5% sulle competenze a titolo di spese generali, oltre
accessori di legge.

Nell’interesse del Pubblico Ministero:

1.        
In via principale, perché il Giudice – disapplicato il Decreto del
Ministro della Sanità del 22 luglio 2004 nella parte in cui prescrive che “ogni indagine relativa allo stato di salute
degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14 comma 5°, dovrà essere di
tipo osservazionale
”, accolga la domanda proposta dai coniugi XXXXX– XXXXX
ed ordini all’Azienda Ospedaliera n. 8 ed al Primario del Servizio, dott.
Giovanni Monni, di eseguire la diagnosi pre-impianto sull’embrione destinato ad
essere trasferito nell’utero della signora XXXXX, ingiungendo al sanitario di
eseguire l’indagine diagnostica anche con tecniche invasive, purchè ancorate a
parametri di rischio compatibili (secondo la lex artis) con la salute e lo
sviluppo dell’embrione; rischio da bilanciare con quello inerente l’accertata
patologia mentale della donna;

2.        
in via subordinata, perché il Giudice, dichiarata rilevante e non
manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art.
13, comma 1° della legge n. 40/2004 in relazione agli artt. 2.3.32 della
Costituzione, voglia sospendere il giudizio e disporre il rinvio degli atti
alla Corte Costituzionale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente
notificato, i coniugi
XXXXX e XXXXX hanno esposto, in
fatto, le seguenti circostanze:

      si erano rivolti, essendo stata accertata la sterilità
di coppia, all’Ospedale Regionale per le Microcitemie di Cagliari, Servizio
Ostetricia e Ginecologia, Diagnosi genetica prenatale e preimpianto, e
precisamente al Primario dello stesso servizio, dott. Giovanni Monni, per
ottenere la fecondazione “in vitro”;

      in precedenza, attraverso la medesima
procedura, XXXXXX si era trovata in stato di gravidanza ma, essendo stato
accertato che il feto era affetto da beta-talassemia, la gravidanza era stata
interrotta per ragioni terapeutiche poiché la XXXXX, constatate le condizioni di salute del
feto, era caduta in uno stato di grave prostrazione che aveva cagionato una
sindrome ansioso-depressiva protrattasi nel tempo ed aveva visto così
compromessa la sua salute psicofisica;

      fatto ricorso nuovamente alla procedura di
procreazione medicalmente assistita, grazie alla quale si era ottenuta la
formazione di un embrione, gli esponenti avevano richiesto la diagnosi
preimpianto, essendo accaduto che l’incertezza in ordine alla salute
dell’embrione aveva nuovamente determinato nella XXXXX uno stato patologico
diagnosticato dalla dott.ssa Nicoletta Cinellu e dalla psichiatra Maria
Cristina Pitzalis in una grave depressione;

      al fine di tutelare la propria salute, la XXXXX aveva rifiutato
l’impianto in attesa di conoscere il risultato diagnostico poiché, tenuto anche
conto della pregressa esperienza conclusasi con l’interruzione della
gravidanza, un impianto “al buio” dell’embrione avrebbe potuto determinare
ulteriori aggravamenti della malattia già in atto;

      il dott. Giovanni Monni aveva tuttavia
rifiutato di eseguire la diagnosi preimpianto, giustificando detto rifiuto in
considerazione dell’interpretazione corrente dell’art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40
(Norme in materia di procreazione
medicalmente assistita
) che, secondo l’impostazione del sanitario,
consentirebbe unicamente interventi sull’embrione aventi finalità diagnostiche
e terapeutiche volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione
stesso, così rendendo illegittimi, e sanzionabili anche sotto il profilo
penale, quelli non giustificati dalla predetta finalità;

      più specificamente, secondo la tesi del
sanitario, la diagnosi preimpianto, non trovando giustificazione nella finalità
specificamente indicata nell’art. 13, non sarebbe consentita neppure quando – come
nel caso concreto – sia stata accertata l’esistenza di un serio pericolo per la
salute psicofisica della donna, cagionato dal timore che l’embrione destinato
all’impianto sia affetto da una grave malattia genetica;

– secondo l’assunto di parte attrice, invece,
tale lettura della disposizione dovrebbe essere esclusa alla luce della norma
costituzionale che tutela il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.),
oltre che di quella che pone il principio di uguaglianza;

– d’altro canto, sempre secondo la tesi
attrice, dovrebbe osservarsi come sia assente nella legge n. 40 del 2004 un
esplicito divieto della diagnosi preimpianto;   

XXXXX e XXXXX hanno quindi chiesto che fosse dichiarato il
diritto della XXXXX di ottenere la diagnosi preimpianto dell’embrione già
formato e che conseguentemente i convenuti fossero condannati all’esecuzione
dell’accertamento genetico in questione. Essi hanno posto in evidenza, in
particolare, come il rifiuto della richiesta diagnosi ponesse in pericolo non
solo la salute della madre, ma altresì le possibilità di sopravvivenza dello
stesso embrione, essendo scientificamente provato che tempi troppo lunghi di
crioconservazione avrebbero potuto determinare un deterioramento dell’embrione
e quindi pregiudicare la possibilità di un fruttuoso impianto. Quest’ultimo
profilo è stato inoltre richiamato a fondamento della richiesta abbreviazione
dei termini processuali; riduzione che è stata accordata con provvedimento del
13 aprile 2007.

Gli attori, infine, per l’ipotesi in cui il Tribunale
avesse ritenuto di non poter accogliere la domanda proposta in via principale,
hanno, per altro verso, sollevato, con riferimento agli artt. 2 e 32, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40,
con riguardo al divieto di diagnosi preimpianto, ove esso dovesse ritenersi
esteso anche al caso in cui l’accertamento genetico trovi giustificazione nella
necessità di tutelare il diritto della donna alla salute. 

Secondo le prospettazioni di parte attrice,
la questione sarebbe rilevante e non manifestamente infondata avendo da tempo la Corte Costituzionale,
in numerose decisioni riguardanti la contigua materia dell’interruzione della
gravidanza, riconosciuto, accanto al fondamento costituzionale della tutela del
concepito, la prevalenza su tale valore del diritto della donna alla salute.

E’ intervenuto in
giudizio, ai sensi del 3° comma dell’art. 70 cod. proc. civ., il Pubblico
Ministero, il quale ha sostenuto che la diagnosi preimpianto sarebbe consentita
nel solo caso in cui ne
abbiano fatto richiesta, come previsto dall’art.
14, 5° comma, l. n. 20/2004, i soggetti che abbiano avuto accesso alla
procreazione medicalmente assistita e che intendano conoscere lo stato di
salute dell’embrione, essendo la diagnosi preimpianto vietata in ogni altro
caso.

Secondo la tesi prospettata dal Pubblico
Ministero, infatti, l’art. 10 d.m. 22 luglio 2004 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), che
impone alle strutture sanitarie autorizzate un’interpretazione restrittiva,
prescrivendo che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni
creati in vitro debba essere
esclusivamente di tipo osservazionale, dovrebbe essere disapplicato, per
l’evidente contrasto con le disposizioni degli artt. 13, secondo comma, e 14,
5° comma, della legge n. 40/2004.

Il Pubblico Ministero ha quindi concluso
perché il giudice, disapplicata la disciplina secondaria, ordinasse, in
accoglimento della domanda, l’esecuzione della diagnosi preimpianto
sull’embrione, alla stregua di parametri di rischio compatibili, secondo la
scienza medica, con la salute e lo sviluppo dell’embrione; ovvero, in
subordine, perché – dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, primo comma, l. 19
febbraio 2004, n. 40, in
relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione – sospendesse il
procedimento, disponendo il rinvio degli atti alla Corte Costituzionale.

Per completezza espositiva è
opportuno segnalare che gli odierni attori, con ricorso depositato il 1° giugno
2005, avevano chiesto la tutela in via cautelare del diritto oggi azionato in
via ordinaria, esponendo le medesime circostante di fatto e le stesse
argomentazioni giuridiche portate oggi all’attenzione del giudicante. Essi in
particolare avevano sollecitato l’adozione di un provvedimento d’urgenza che,
accertato il fumus boni iuris, prescrivesse alla parte convenuta di procedere
alla diagnosi preventiva, e ciò al fine di evitare, quanto al periculum in mora, che il tempo necessario per l’accertamento in via ordinaria
del diritto ad ottenere l’accertamento diagnostico richiesto potesse arrecare
un grave pregiudizio alla salute psicofisica della madre e dello stesso
embrione, provvisoriamente crioconservato.

  Il Giudice adito in via cautelare, con
ordinanza del 16 luglio 2005, n. 574, aveva sollevato, in relazione agli artt.
2, 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità dell’art. 13 della
legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita
), nella parte in cui farebbe
divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle
tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto
sull’embrione ai fini dell’accertamento di eventuali gravi patologie.

 
La Corte
Costituzionale
non è entrata nel merito delle questioni
sottoposte al suo esame, ritenendo di dover censurare, con una declaratoria
processuale di manifesta inammissibilità, quella che ha considerato una “evidente contraddizione” in cui il
Tribunale sarebbe incorso “nel sollevare
una questione volta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una
specifica disposizione (il divieto di sottoporre l’embrione, prima
dell’impianto, a diagnosi per l’accertamento di eventuali patologie), che,
secondo l’impostazione della stessa ordinanza di rimessione, sarebbe però
desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati

nonché dall’interpretazione dell’intero testo legislativo “alla luce dei suoi criteri ispiratori.” (Corte Costituzionale,
ordinanza 24 ottobre – 9 novembre 2006, n. 369) .   

I coniugi XXXXX, all’esito della
pronuncia della Corte, hanno preferito abbandonare il procedimento cautelare in
corso ed intraprendere nuovo procedimento in via ordinaria.

Dichiarata la contumacia
dell’Azienda U.s.l. n. 8 di Cagliari e del dott. Giovanni Monni, i quali
non si sono
costituiti nel procedimento nonostante la ritualità della notifica, la causa è
stata istruita con produzioni documentali ed è stata assunta a decisione sulle
conclusioni rassegnate dalle parti.%3Co:p />

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda è fondata e pertanto
merita accoglimento, dovendo ritenersi praticabile, anche con riferimento al
quadro normativo introdotto con la legge
19 febbraio 2004, n. 40 (Norme
in materia di procreazione medicalmente assistita
), l’accertamento diagnostico richiesto dagli attori.

 
Come è noto, la c.d. diagnosi preimpianto consiste in un accertamento
genetico che, attraverso la tecnica del prelievo di una o più cellule dall’embrione
prima del suo impianto nell’utero materno, consente di accertare se l’embrione
stesso sia o meno portatore di determinate gravi malattie e quindi di
conoscerne, prima dell’impianto, lo stato di salute.

 Si tratta di metodologie diagnostiche che anticipano
ad un momento immediatamente precedente l’impianto l’accertamento di eventuali
patologie dell’embrione comunemente diagnosticabili, quando una gravidanza sia
già in atto, con le tecniche di diagnosi prenatale (villocentesi, amniocentesi,
ecc.)  e che sono divenute possibili solo
successivamente alla praticabilità della c.d. fecondazione in vitro.

 Prima dell’entrata in vigore della legge n.
40/2004 la diagnosi preimpianto sugli embrioni prodotti in vitro e destinati al trasferimento in utero era comunemente
praticata e nessuno dubitava della sua liceità. 
Successivamente all’approvazione della legge sulla procreazione
medicalmente assistita la questione sulla perdurante liceità dell’accertamento
diagnostico in esame è divenuta controversa, non essendo il disposto normativo
del tutto chiaro.

 
Nella legge n. 40/2004 non è infatti individuabile una disposizione che
faccia specifico riferimento alla diagnosi preimpianto, ed il problema è
ulteriormente complicato dal fatto che, invece, con espressa disposizione,
viene riconosciuto, in capo a coloro che abbiano fatto (legittimo) ricorso alle
tecniche di procreazione medicalmente assistita, il diritto di essere informati
sul numero e, su loro esplicita richiesta, sullo stato di salute degli embrioni
prodotti e destinati al trasferimento in utero.

Il quadro normativo di
riferimento è il seguente.

L’art. 13 della legge, dedicato
alla “Sperimentazione sugli embrioni
umani”,
stabilisce al primo comma che “E’
vietata qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano”;
precisa,
peraltro, al secondo comma che “La ricerca clinica e sperimentale su ciascun
embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela
della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano
disponibili metodologie alternative”;
vieta nel successivo terzo
comma “la produzione di embrioni a fini
di ricerca o di sperimentazione”,
e indica poi analiticamente tutta una
serie di specifici interventi invasivi sull’embrione, tra cui la “selezione
a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti”
e la manipolazione del patrimonio genetico, vietati anch’essi, salvo
che non siano giustificati da “finalità diagnostiche e terapeutiche volte
alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso” .

 
L’art. 14 recita al 5° comma che “i soggetti di cui all’art. 5 sono
informati sul numero, e – a loro richiesta – sullo stato di salute degli
embrioni prodotti e da trasferire nell’utero”.

 Le Linee guida ministeriali del 22 luglio
2004, emanate ai sensi dell’art. 7 della legge in esame (Decreto Ministero
della Salute G.U. n. 191 del 16 agosto 2004), stabiliscono infine che “ogni
indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art.
14 comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale”.

 
La dottrina è divisa sull’interpretazione delle disposizioni in esame,
che infatti sono state lette in due sensi diametralmente opposti, dovendosi
segnalare, accanto ad autori che hanno individuato nell’art. 13 della legge la
regola dell’illiceità penale della diagnosi preimpianto, autori che, invece,
hanno affermato la praticabilità dell’accertamento diagnostico in questione
quando richiesto ai sensi dell’art. 14 comma 5 della legge n. 40/2400. 

 
La soluzione del problema, inoltre, è resa ancora più ardua dalla
mancanza di precedenti giurisprudenziali e, quindi, dall’impossibilità di
identificare un diritto vivente cui si possa fare riferimento.

 Nessun lume può trarsi infine dalla decisione
della Corte Costituzionale, prima richiamata, che ha lasciato del tutto
irrisolta la questione in esame, avendo il Supremo Collegio chiuso il
procedimento davanti a sé con una decisione meramente processuale.

 
La disposizione dalla quale, secondo la tesi restrittiva, deriverebbe
l’illiceità penale dell’accertamento diagnostico richiesto dagli attori sarebbe
contenuta nell’art. 13 della l. n. 40 del 2004, da intendersi alla luce di
quella che si afferma essere la sua interpretazione corrente, ulteriormente confermata,
quest’ultima, dalle Linee guida emanate dal Ministro per la Salute ai sensi dell’art. 7
della legge n.40/2004.

  
A sostegno della tesi della non praticabilità della diagnosi
preimpianto, di cui è espressione l’ordinanza di rimessione prima richiamata
(alla cui ampia motivazione si rimanda per una più approfondita disamina delle
argomentazioni), sono stati indicati i seguenti argomenti :

– l’ampio tenore letterale
dell’art. 13, che non consentirebbe l’esclusione dal suo ambito della diagnosi
preimpianto neppure se richiesta ai sensi dell’art. 14, 5° comma, dovendo
anch’essa pur sempre ritenersi ricompresa nel concetto di “ricerca clinica e sperimentale”, sempre vietata
laddove non finalizzata alla tutela della
salute e allo sviluppo dell’embrione medesimo;

il fatto che la
diagnosi preventiva finalizzata all’accertamento di eventuali malattie
genetiche, come nel caso concreto della beta-talassemia, non potrebbe ritenersi
utilizzabile per  interventi a tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione”,
non sussistendo – sulla base delle attuali conoscenze scientifiche – alcuna
possibilità di cura dell’embrione affetto da tali malattie;

– il contenuto delle linee guida ministeriali
che espressamente vietano accertamenti diagnostici sugli embrioni di tipo
invasivo consentendo solo una diagnosi di tipo osservazionale;

– l’interpretazione della legge alla luce dei
suoi criteri ispiratori, dai quali emergerebbe la preoccupazione di restringere
entro limiti rigorosi la ricerca scientifica sugli embrioni, in via generale
vietata salvo le eccezioni previste dalla legge; nonché l’intento di garantire in tale ottica la massima tutela della salute e
dello sviluppo dell’embrione;

la disciplina
complessiva della procedura di procreazione medicalmente assistita disegnata
dalla legge, che prevede la revocabilità del consenso solo fino alla
fecondazione dell’ovulo, il divieto di creazione di embrioni in numero
superiore a quello necessario per un unico impianto ed il divieto in via
generale di crioconservazione e di soppressione di embrioni;

– l’interpretazione restrittiva
della disposizione dettata all’art. 14, terzo comma, della legge in esame, che
consente la “crioconservazione degli
embrioni qualora il trasferimento degli stessi non risulti possibile per grave
e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della
donna, non prevedibile al momento della fecondazione”
; interpretazione
secondo cui la norma farebbe riferimento ai soli ostacoli patologici
all’impianto di natura meramente transitoria.

 
Questo giudice ritiene non condivisibili le argomentazioni poste a
fondamento dell’opzione interpretativa appena delineata e ritiene invece
preferibile, per le ragioni che di seguito si indicheranno, quella lettura del
dettato normativo che riconosce la praticabilità della diagnosi preimpianto
quando, come nel caso di specie, la stessa risponda alle seguenti
caratteristiche: sia stata richiesta dai soggetti indicati nell’art. 14, 5°
comma, l. n. 40/2004; abbia ad oggetto gli embrioni destinati all’impianto nel
grembo materno (destinazione che, ad esempio, deve invece ritenersi esclusa per
gli embrioni che si trovino in stato di crioconservazione in attesa di
estinzione); sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie
dell’embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo
accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata
informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare.

 Tanto premesso, occorre procedere ad una
analisi più in dettaglio delle disposizioni controverse per dare conto delle
specifiche ragioni che rendono preferibile l’interpretazione succintamente
indicata, e, per altro verso, non condivisibile, invece, la tesi restrittiva
della inammissibilità dell’accertamento medico richiesto dagli attori.

1. La mancanza di un esplicito
divieto

 Può subito osservarsi come appaia fortemente
significativa l’assenza, nel sistema delineato dalla l. n. 40/2004, di un
espresso divieto riguardante specificamente la diagnosi preimpianto, poichè, come
è noto, il testo legislativo si caratterizza per uno stile normativo di chiara
e decisa presa di posizione in ordine alla prevalenza di determinati interessi,
evidentemente ritenuti maggiormente meritevoli rispetto ad altri, per la cui
tutela viene approntata una fitta rete di specifici divieti e dettagliati
obblighi, la cui violazione è spesso sanzionata anche penalmente.

 Né può sostenersi che la mancata previsione di
un esplicito divieto avente ad oggetto la diagnosi preimpianto sia, in realtà,
il frutto di una svista del legislatore, che meno abbia detto di quanto non
volesse. Deve infatti osservarsi come la piena consapevolezza, di cui vi è
ampia traccia nei lavori parlamentari, in ordine ai rischi ricollegati ad un
indiscriminato utilizzo della diagnosi preimpianto e alle possibili
strumentalizzazioni a scopo eugenetico che sarebbero potute derivare da una
indisciplinata applicazione delle tecniche di procreazione assistita non abbia
condotto alla previsione di un divieto generalizzato della diagnosi
preimpianto, bensì all’adozione di soluzioni normative differenti. Da un lato,
infatti, il timore di possibili strumentalizzazioni eugenetiche ha ispirato la
disposizione riguardante la illiceità della selezione di embrioni a scopo
eugenetico (v. art. 13 lett. b), punita con una pesante sanzione penale, ed
altresì l’esclusione della possibilità di ricorrere alle tecniche di
fecondazione assistita per le coppie non sterili ma portatrici di gravi
malattie genetiche trasmissibili (art. 4 l. n. 40/2004).  Dall’altro, l’intento di evitare l’uso
indiscriminato di accertamenti genetici ed interventi invasivi sull’embrione a
fini meramente scientifici ha condotto all’approvazione della disposizione di
cui all’art. 13, secondo cui detti interventi sono consentiti, come già detto,
solo se volti “alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso .

 
Vi è da osservare, inoltre, che, considerata la mancanza di una espressa
previsione riguardante specificamente la diagnosi preimpianto, la tesi della
non praticabilità della stessa anche nei casi in cui sia finalizzata alla
soddisfazione del diritto di cui all’art. 14, comma 5°, appare censurabile
anche con riferimento al principio di tassatività che caratterizza la materia
penale ed in base al quale deve essere bandita ogni interpretazione che
comporti un’estensione, oltre l’ambito previsto dalla legge, dei comportamenti
punibili con sanzione penale. 

2. Il significato letterale e
l’ambito della disciplina dettata

 L