Il “Caso Davis” indebolisce Zardari e complica le relazioni Usa-Pakistan

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Il “Caso Davis” indebolisce Zardari e complica le relazioni Usa-Pakistan

03 Marzo 2011

I colpi di pistola con cui Raymond Davis, lo scorso 27 gennaio, ha tolto la vita a due cittadini pakistani, rischiano di fare più vittime di quelle realmente fatte registrare. La questione è oramai al centro del dibattito pubblico internazionale e sta alimentando tensioni che, di giorno in giorno, si fanno più difficili da eliminare e che rischiano di infliggere un duro colpo alle relazioni tra Pakistan e Stati Uniti, ma soprattutto, alla tenuta del governo di Islamabad. La vicenda si è infittita negli ultimi giorni, quando il Guardian ha riportato la notizia, che ha poi trovato conferma, seconda la quale Davis lavora per la CIA, occupandosi di garantire la sicurezza dei dipendenti dell’ambasciata e del consolato americani. Gli Stati Uniti si sono affrettati a precisare di aver nascosto questo particolare per evitare che divenisse oggetto di attacchi in carcere. Davis è stato infatti trasferito nella prigione di massima sicurezza di  Kot Lakhpat, a Lahore, dove si è provveduto a privare le guardie delle armi per evitare che possano usarle contro di lui e ad ingaggiare dei cani che, prima dei pasti, verifichino che nel cibo non ci sia del veleno.

A complicare ulteriormente il quadro è stata la rivelazione secondo cui, in passato, Davis avrebbe fatto parte dei Blackwater, compagnia militare privata specializzata nella conduzione di delicate operazioni segrete, che in Pakistan non gode certo di una buona reputazione. Tanto è bastato per alimentare quelle teorie complottistiche che in Pakistan godono di un gran seguito, per cui la CIA e i Blackwater starebbero tentando di destabilizzare il paese, in modo da poter mettere le mani sul suo arsenale nucleare. Aldilà di tali congetture, restano sul tavolo numerose questioni e cominciano a registrarsi le prime vittime politiche illustri di questa vicenda. Il primo di questa lista è l’ormai ex-ministro degli esteri pakistano Mehmood Shah Qureshi, sollevato dall’incarico a seguito del rimpasto di governo avvenuto lo scorso 11 febbraio. In un’intervista rilasciata ad un ente televisivo pakistano, Qureshi ha infatti affermato di essere stato punito per le posizioni assunte sulla vicenda Davis e, nello specifico, per essersi dichiarato fermamente contrario alla concessione dell’immunità diplomatica. Il presidente Zardari ha subito respinto tali illazioni, aggiungendo che ad occuparsi del caso Davis sarà il tribunale di Lahore e, pertanto, non c’era motivo di fare alcuna pressione su Qureshi. Sarà infatti il tribunale di Lahore a decidere, il prossimo 14 marzo, se esistono le condizioni perché goda dell’immunità o meno.

Ad ogni modo, è innegabile che questa vicenda stia minando la stabilità, di per sé già precaria, dell’esecutivo, e a prescindere da quello che sarà l’esito finale, è molto probabile ch’essa lasci strascichi difficili da lavare via. Il governo pakistano è reduce da una serie di vicende che ne hanno messo a dura prova la tenuta, la più importante delle quali è certamente la temporanea defezione del secondo maggiore partito della coalizione, il Muttahida Quami Movement (MQM), avvenuta lo scorso 2 gennaio a seguito di un rialzo del 9% del prezzo del carburante e rientrata dopo 5 giorni di intensi negoziati.
Il rimpasto di governo dell’11 febbraio scorso viene letto da molti come un tentativo di venire incontro alla richiesta dell’opposizione, e dello stesso MQM, di tagliare drasticamente la spesa pubblica (il precedente esecutivo si componeva di quasi 60 ministri mentre quello attuale, al momento, si attesta su 23 dicasteri), ma ciò diverrà sempre più difficile. Il rischio è che il governo diventi ostaggio delle varie parti politiche e pur di sopravvivere, decida di intraprendere la strada del compromesso. Anche in tal caso, diverrebbe sempre più dura accontentare tutti e si finirebbe in una situazione di assoluta stasi che danneggerebbe gravemente un paese già dilaniato da molti problemi

L’assenza di credibili alternative a questa strategia del compromesso a tutti i costi è il segno più evidente della crisi attraversata dal sistema politico pakistano, incapace di assumere la leadership del paese, attuando misure radicali che non tengano in considerazione i soli umori passeggeri della popolazione e dei gruppi più radicali. La realtà è ben diversa e vede un presidente – Zardari – ed un primo ministro – Gilani – che non riescono a dettare una linea politica chiara e coerente e si barcamenano, ormai da diversi mesi, tra l’esigenza di non scontentare troppo gli avversari politici e quella di conformarsi alle direttive che giungono da fuori (leggasi Washington). Ed ora, il caso Davis rischia proprio di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, essenziali per la sopravvivenza del paese.

Negli ultimi anni, da Washington sono giunti flussi di denaro dell’ordine di miliardi dollari che sono serviti a tenere a galla la boccheggiante economia pakistana. È stata proprio la prospettiva di questi cospicui aiuti, uno dei fattori che avevano spinto Musharraf a schierarsi con l’occidente nella lotta al terrorismo. Dovessero venire a mancare questi soldi (che in verità, sono stato finora usati principalmente dalle forze armate per comprare armi inutili contro i terroristi, ma di gran lunga più efficaci in un eventuale scontro con gli indiani), la prospettiva del collasso economico si farebbe molto più concreta. Questa è, al momento, una prospettiva poco realistica se si considera l’estremo bisogno che hanno gli americani della collaborazione con le autorità pakistane, nell’ambito della lotta o, in misura ancora maggiore, dei negoziati con i talebani. Tuttavia,  proprio la collaborazione sul fronte della lotta al terrorismo rischia di uscire piuttosto danneggiata da questa vicenda. Che tra la CIA e l’ISI (Inter-Services Intelligence) non scorresse buon sangue è cosa nota ai più, ma il caso Davis potrebbe ulteriormente peggiorare la situazione. Il 25 febbraio, c’è stata una significativa telefonata tra Panetta e Pasha – direttori delle due agenzie – e pare che si sia siano toccati temi delicati come, ad esempio, le operazioni coperte che gli americani effettuano sul territorio pakistano, accusate spesso di non rispettare la sovranità di Islamabad sui propri territori.

Quel che ne emerge è un quadro dalle tinte sfumate, in cui però comincia ad essere possibile intravedere qualcosa. Sembra infatti che il capo della CIA abbia assicurato alla sua controparte che, d’ora in poi, all’ISI saranno consegnati tutti i dati relativi alle operazioni condotte sul territorio pakistano, nel tentativo di accrescere il dato di fiducia reciproca, al momento davvero molto basso. È probabile che nei prossimi giorni, da Washington vengano ulteriori concessioni di questo tipo e che le autorità americane facciano ancora ammenda per l’accaduto, sperando in tal modo di ammorbidire le posizioni della popolazione pakistana. Tuttavia, è proprio qui che risiede il vero problema. I partiti di opposizione ed i vari gruppi religiosi attivi sul territorio pakistano sono impegnati, da ormai qualche settimana, a fomentare il risentimento della gente comune nei confronti degli Stati Uniti, soffiando su un fuoco che è già di per sé molto vivo. Intanto, il Tehrik-i-Taliban ha chiesto l’esecuzione di Davis, annunciando che non esiterebbe a colpire le massime autorità pakistane, qualora queste dovessero decidere di concedergli l’immunità, riconsegnandolo agli americani. È dunque evidente come non ci siano vie d’uscita capaci di accontentare tutti i protagonisti della vicenda e resta dunque da capire chi dovrà pagare.

In realtà, qualcuno ha persino giovato del caos venutosi a creare in queste ultime settimane. Trattasi delle popolazioni delle aree tribali pakistane, le quali hanno goduto di tre settimane senza alcun attacco portato dai drone americani. I vertici militari giustificano l’accaduto con il mal tempo che avrebbe caratterizzato questo lasso di tempo, ma la realtà sembrerebbe risiedere altrove. In altre parole, molti leggono in questa tregua (una delle più lunghe ma registrate dagli inizi del 2008), il tentativo degli americani di non alimentare ulteriormente il risentimento della popolazione pakistana, ma i calcoli si sarebbero rivelati errati. Prendendo per buona tale ipotesi infatti, verrebbe da chiedersi se il destino di un singolo cittadino americano valga più di una battaglia, quella coi talebani, entrata ormai nella sua fase più critica. È difficile fare previsioni sull’esito di questa complicata vicenda e occorrerà aspettare il 14 marzo per avere qualche risposta. Intanto però, resta la sensazione di un enorme polverone che si poteva quasi certamente evitare e che, in ogni caso, peggiorerà una situazione di per sé già molto critica.