Il petrolio della Libia fa gola alla Cina

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Il petrolio della Libia fa gola alla Cina

03 Marzo 2011

Mentre le navi da guerra americane, britanniche e francesi si avvicinavano alle coste libiche per far capire a Muammar Gheddafi che la possibilità di un intervento armato non è solo un’ipotesi, il Colonnello pronunciava le parole che le diplomazie occidentali e il mondo degli affari non avrebbero voluto mai sentire. Il Rais ha detto  che la produzione di petrolio in Libia è scesa ai livelli "più bassi", a causa della partenza dei dipendenti delle società petrolifere straniere che operano nel Paese, dopo l’inizio della rivolta. Ma in prospettiva, ha aggiunto, la Libia è pronta a sostituire le compagnie petrolifere occidentali con quelle di Cina e India.

Pechino vanta già ottimi rapporti con la Libia. Le aziende cinesi controllate dallo stato hanno una lunga esperienza di utilizzo dell’industria petrolifera e delle infrastrutture come strumento di penetrazione in gran parte del continente africano. Oltre 33mila cinesi vivono e lavorano nel Paese sconvolto dalla violenza, e sono impegnate a realizzare opere per miliardi di euro per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e la realizzazione di infrastrutture. La Comunication Construction e la China Railway Construction Corporation progettano e costruiscono linee ferroviarie, la China Civil Engineering Construction cura un progetto di irrigazione nel Sahara orientale, la China Gezhouba Group edifica abitazioni in cinque città meridionali, la Huawei Technologies realizza infrastrutture per la telefonia mobile, e l’elenco potrebbe proseguire. Qualunque cosa sarà la Libia del dopo-Gheddafi i cinesi saranno comunque in grado di tornare nel Paese e attuare la consueta politica della non interferenza negli affari interni già sperimentata con grande successo in moltissimi paesi dell’Africa. 

Al momento non ci sono imprese indiane che operano in Libia ma negli ultimi anni New Delhi ha notevolmente aumentato i rapporti commerciali e diplomatici con il Continente nero. Gli indiani cercano energia e materie prime in cambio di prestiti e opere. Per contrastare la forte presenza cinese stanno sperimentando una collaborazione diversa e più rispettosa delle esigenze locali e dei diritti della gente. Se i rapporti tra Libia ed Occidente dovessero precipitare indiani e cinesi avrebbero campo libero. Cina ed India hanno una popolazione complessiva che sfiora i tre miliardi di persone e sono alla spasmodica ricerca di risorse energetiche per alimentare le loro voraci economie in giro per il globo. Ormai la Cina ha uno status di “global player” che le consente di muoversi  in aperto contrasto rispetto agli Stati Uniti. Discorso diverso per l’India, alleato di ferro di Washington e pivot della strategia per il contenimento dell’espansionismo in Asia. Ma quando si tratta di petrolio anche gli indiani non possono andare tanto per il sottile.

Il governo di New Delhi fa ottimi affare con gli iraniani. Pur essendo il quarto produttore al mondo di petrolio, l’Iran è costretto a importare il 40 per cento della sua benzina perché non possiede una sufficiente capacità di raffinazione del greggio. Nonostante l’ultimo durissimo round di sanzioni Onu contro il regime degli ayatollah voluto dalla Casa Bianca, a questa carenza sopperisce in gran parte l’India (assieme anche ad un altro alleato americano come la Turchia). Questo significa che se le compagnie petrolifere occidentali dovessero essere costrette a lasciare la Libia, i cinesi ma anche gli indiani sarebbero pronti a prendere il loro posto.

Ma per la dirigenza cinesi non arrivano solo buone notizie dal mondo arabo ormai in fiamme. Mentre la rivolta scoppiava in Libia, il premier cinese Wen Jiabao ha promesso che riformerà l’Hukou, il sistema di residenza obbligatoria in vigore fin dall’antichità. Un istituto giuridico che mostra chiaramente quanto la Cina si sia trasformata in pochi decenni. Quando i cinesi erano soprattutto contadini, la comune popolare d’appartenenza pensava al loro fabbisogno anche in termini di welfare compreso l’educazione e la sanità. Ai tempi di Mao l’Hukou serviva a contenere la migrazione verso i centri urbani. Con le riforme varate alla fine degli anni Settanta, l’Hukou  fu progressivamente allentato e si concesse libertà di spostamento, perché era funzionale allo sviluppo industriale. I lavoratori fluivano verso le Zone Economiche Speciali  creavano quell’esercito a basso costo che ha permesso alle industrie occidentali di delocalizzare e alla Cina di crescere sull’onda dell’export. Ma in poco tempo si creò quella fortissima polarizzazione economica e sociale che caratterizza la Cina di oggi.

Le rivolte nelle aree rurali che in tempi recenti si stanno intensificando sono dovute proprio a questa differenza tra cinesi delle campagne e quelli delle città. La riforma era già in cantiere ma è significativo che i il partito sia decida a vararla sotto la minacci della rivolta dei gelsomini annunciata attraverso internet. Anonimi internauti hanno invitato la gente a spontanee proteste di piazza come nelle rivolte in atto in Africa del Nord. Il regime applica sempre maggiori misure preventive e Alcuni attivisti sono per i diritti umani sono stati arrestati per essersi trovati in alcuni luoghi indicati da anonimi sulla Rete per scendere in piazza. Per prevenire le proteste, da settimane le autorità hanno arrestato o minacciato oltre 100 dissidenti. Le proteste di piazza annunciate via internet per il 20 e il 27 febbraio non ci sono state, ma centinaia di poliziotti hanno presidiato il centro delle grandi città per impedirle. Ora su internet anonimi irridono le autorità per il loro “orrore e paura verso la popolazione, come se dovessero affrontare un pericolo mortale”. Osservano la “debolezza” di un potere che teme persino un pacifico assembramento.

Esasperato dalla possibilità di rivolte, il governo centrale ha proibito ai giornalisti esteri di recarsi senza permesso nella popolare zona di negozi Wanfujing a Pechino, indicata tra i luoghi di protesta e dove il 27 febbraio la polizia ha aggredito un gruppetto di giornalisti stranieri. Il ministro cinese degli Esteri ha biasimato i giornalisti per avere creato “confusione”, non rispettando le regole e fermandosi senza ragione in una strada affollata. E’ pure loro proibito fare fotografie e fermare persone creando assembramenti senza autorizzazione. Probabilmente l’apparato repressivo comunista riuscirà a soffocare sul nascere le prossime proteste ma questo atteggiamento paranoico mostra con chiarezza tutte le contraddizioni della Cina del XXI secolo.