Sul federalismo le Regioni vogliono qualcosa in cambio dal governo

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Sul federalismo le Regioni vogliono qualcosa in cambio dal governo

04 Marzo 2011

La riforma del federalismo fiscale procede a doppia velocità. Se due giorni fa, infatti, la Camera ha dato il nulla osta allo schema di decreto sul federalismo municipale, dando il via libera al Consiglio dei ministri che ieri ha licenziato definitivamente il decreto, quello sul federalismo regionale ha invece subito lo stop delle Regioni che, per bocca del presidente Errani, hanno fatto sapere che un’intesa con il governo ancora non c’è. In particolare, le Regioni hanno accusato il Governo di non aver rispettato gli impegni contenuti nell’intesa del dicembre scorso e hanno definito questa situazione di stallo "molto critica". Per finire, il Consiglio dei Ministri ha dovuto concedere quattro mesi di proroga per l’approvazione dei decreti con scadenza 21 maggio nella speranza di trovare una conciliazione tra le parti.

L’abbandono del tavolo negoziale da parte delle Regioni ricorda quello effettuato dall’Anci relativamente al federalismo municipale. E a dire il vero, non giunge nemmeno così imprevisto, data l’importanza della posta in gioco. Come i Comuni, anche le Regioni chiedono la certezza che la soppressione degli attuali trasferimenti statali non si risolva in una drastica riduzione delle fonti di finanziamento. Ma la determinazione della grandezza della torta da ridistribuire non è il solo problema che preoccupa i governatori. Problemi sorgono anche nel determinare i meccanismi con i quali verranno assegnate le risorse. A questo riguardo, il decreto contiene una serie di norme per la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario, che rappresenta circa l’ottanta per cento dei bilanci regionali, con l’obiettivo di passare da un criterio di riparto basato sulla spesa storica ad un altro basato sui costi standard.

Cosa comporterà per le Regioni questo cambiamento? Innanzitutto, dobbiamo pensare al costo standard come un indicatore di efficienza nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza. La garanzia di erogare questi livelli in modo efficiente dovrebbe permettere il raggiungimento dell’equilibrio economico e la minimizzazione degli sprechi, malcostume noto nella sanità italiana. Ad oggi, non tutte le Regioni sono in grado di offrire l’efficienza nell’erogazione di questi servizi; da qui il motivo per cui la spesa pubblica nel settore è lievitata così tanto nel corso degli ultimi decenni. Per eliminare alla radice questo problema, il decreto ha introdotto una norma con la quale si prevede che il fabbisogno sanitario complessivo venga determinato in maniera che a tutte le Regioni vengano applicati i valori di costo rilevati in alcune Regioni "modello", ovvero le più efficienti. Viene quindi stabilito che il livello d’efficienza sufficiente per erogare le prestazioni sanitarie debba essere quello del costo standard, al quale anche le Regioni che attualmente erogano il servizio ad un costo più elevato si dovranno adattare. Questo meccanismo dovrebbe comportare, a regime, una riduzione della spesa complessiva delle Regioni meno efficienti, costrette ad adottare gli standard di quelle più virtuose. Con il vantaggio che la spesa sanitaria nazionale presumibilmente si ridurrà, come conseguenza dell’eliminazione della componente meno efficiente di spesa.

Ma proprio qui sorge il problema politico. La fase di transizione sarà sostanzialmente priva di effetti per le Regioni più funzionanti, ma può essere molto onerosa per quelle meno virtuose, poiché dovranno erogare gli stessi servizi con un quantitativo di risorse inferiore a quello attuale. E la riduzione di risorse non è mai una buona notizia da portare ai propri cittadini. L’ammontare di trasferimenti statali soppressi verrà indicato in uno dei prossimi decreti attuativi, come ricordato dal presidente della COPAFF Antonini nel corso di una audizione tenuta presso la commissione Bicamerale, e soltanto allora si potranno fare delle stime precise sullo sforzo che ogni Regione dovrà fare per convergere verso un livello di spesa efficiente.

Esiste poi un altro motivo di ansia per i governatori, inerente al criterio di scelta delle Regioni di riferimento. Una norma del decreto prevede infatti che, per il calcolo del costo standard, vengano scelte tre Regioni (tra cui obbligatoriamente la prima) tra le migliori cinque che abbiano garantito l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizione di equilibrio economico, in base a criteri di qualità dei servizi erogati, appropriatezza ed efficienza. Anche in questo caso il criterio avvantaggia le Regioni più virtuose. In sostanza, se l’obiettivo finale di una riduzione della spesa sanitaria da raggiungersi mediante la buona gestione è condiviso, quando si passa a negoziare il come questo dovrà avvenire si innestano subito feroci conflitti politici. Con l’idea che la riduzione degli sprechi è giusta purché non tocchi a me.

Il governo deve essere consapevole che trovare una soluzione in grado di coniugare l’efficienza del sistema con il consenso politico sarà impresa ardua. Infatti, quanto maggiore è l’efficienza che si vuole raggiungere, tanto maggiore è lo sforzo che un numero di Regioni dovrà esercitare, con il rischio che quelle più svantaggiate si coalizzino per ostacolare la riforma. Al contrario, quanto maggiore è il consenso che il Governo vuole ottenere, tanto più deve accettare una soluzione che non si discosti di molto dallo status quo attuale. Con l’incognita, quindi, che nulla cambi. Con Chiamparino, si è visto, Calderoli ha dovuto scendere a patti, garantendogli lo sblocco delle addizionali Irpef, che si traduce in più soldi ai Comuni ma più tasse per i cittadini. C’è il rischio che questa prassi venga seguita anche con le Regioni, magari andando a ritoccare le norme del decreto relative alla rideterminazione dell’addizionale Irpef, alla compartecipazione all’Iva o alla riduzione dell’Irap. Oppure, che si debbano riscrivere le norme sugli standard sanitari, ostacolando così un percorso virtuoso di risanamento del settore che porti ad una consacrazione definitiva dell’efficienza come indicatore vincente per ridurre gli sprechi di denaro pubblico.