La Francia del “baby-boom” è un modello per l’Europa (e l’Italia)
03 Febbraio 2011
È di pochi giorni la notizia incoraggiante che la Francia, il nostro amato-rivale cugino, ha stabilito il record di neonati nel 2010: 828mila, superando così di 358mila la soglia dei 65 milioni di abitanti. Le donne francesi hanno consolidato la loro seconda posizione tra i paesi europei, registrando una media di 2.01 figli a testa, dietro solo alle donne irlandesi che segnano il 2.07, e distaccando di molto quelle italiane che, secondo l’Istat, nel 2009, hanno avuto una media di 1.41 a testa.
C’è da dire che a partire dalla metà degli anni ’90 la natalità in Italia ha registrato una moderata ripresa, ma da molti attribuita al tasso di fecondità delle donne immigrate. Infatti, la fecondità in Italia, ancora molto al di sotto della soglia di 2,1 che permette la costanza della popolazione, superiore al minimo di 1,18 figli per donna del 1995 e ben lontana dalla media di 2 dei paesi Ocse, segnala un crescita davvero irrisoria. Quando potremmo anche noi iniziare un nuovo anno con dei dati significativi sulla crescita delle nascite in Italia?
Per non parlare della triste situazione lavorativa delle donne italiane, ben lontane dall’occupare posti di rilievo nell’amministrazione, nel business e nella vita politica. Certo la media americana del 40% di donne presenti nel settore manager privato è quasi un miraggio nel deserto per l’Italia, ma anche il 12% della media europea non sembra un traguardo raggiungibile a breve. Possiamo dare la colpa a tante cause e darci tante giustificazioni. Ma è certo che la nostra bassissima fertilità e valorizzazione del ‘genio femminile’ di wojtyliana memoria, richiede uno sforzo non indifferente, alle donne e altrettanto agli uomini.
Il recente dato francese permette innanzitutto di affermare che non si fanno figli perché non c’è abbastanza ricchezza è un mito da sfatare. I dati Ocse ci dicono che ci sono paesi con Pil pro capite simile al nostro che generano più figli di noi, come i “soliti” paesi del nord Europa, ma anche gli Usa e il Giappone. Altro stimolo che ci viene dal dato francese è che un alto tasso di attività lavorativa femminile, che oltr’alpe riguarda l’80% delle donne, non incide così fortemente sulla natalità. Il blocco della carriera femminile può essere letto anche alla luce di un retaggio culturale molto radicato nella nostra tradizione, che vede la donna come la “custode del focolare domestico”, tutta casa e figli. Ma i figli non ci sono più, e le case sono sempre più piccole e tecnologicamente attrezzate.
Allora quello che manca veramente è una svolta culturale. Quella fiducia nella vita e nel valore della persona, come gesto di generosità e di solidarietà. Non solo. Anche una strategia di politiche familiari che diano aiuto e sostegno vero e reale alla famiglia in sé, senza aggettivi (come diceva recentemente E. Saracino). Occorre un’azione educativa che il ministro Sacconi ha giustamente fondato su “un’antropologia positiva”. Un atteggiamento personale e sociale-politico di fiducia nell’altro. Non porsi di fronte all’altro con la paura e la preventiva difesa da un possibile o ipotetico attacco.
Nelle relazioni, anche familiari, e nelle scelte politiche occorre la capacità e il coraggio, non certo azzardato e illusorio, ma antropologicamente fondato, di dare ‘credito’ al nostro simile per la dignità che ha in sé e per le capacità che ha di agire. In questa prospettiva è sensato e ragionevole parlare, con in ministro Sacconi, di “meno stato e più società”. Non per dire che lo stato è da eliminare. Ma per dare il giusto posto alla responsabilità dell’individuo dentro una rete di responsabilità verticale (con le autorità ed istituzioni) ed orizzontale (con gli altri simili e concittadini).
Il dono dei figli, la valorizzazione del ‘genio femminile’, il rispetto della vita si misurano concretamente in scelte che il governo sta cercando di realizzare, ma serve spingere di più sull’acceleratore sugli interventi a favore dei nidi, delle detrazioni fiscali, dell’alloggio, delle tasse scolastiche (solo per citarne alcuni), per non trovarsi troppo indietro rispetto agli altri competitors occidentali, non riuscire più a reggere il peso di una previdenza sociale insopportabile, e dover affrontare un’emergenza sociale interna di non poca rilevanza.