Festeggiare l’Italia tra pensieri e parole aiuta ad amarla per quella che è

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Festeggiare l’Italia tra pensieri e parole aiuta ad amarla per quella che è

Festeggiare l’Italia tra pensieri e parole aiuta ad amarla per quella che è

18 Marzo 2011

di Yanez

Oggi è una festa nazionale. Dovrei celebrarla in qualche modo: siccome sono uno che per mestiere pensa e per passione scrive (e si sforza di tenere le due attività in qualche modo collegate), la celebrerò in pensieri e parole.

Le feste sono fatte per unire, ma in Italia ottengono per solito l’effetto di dividere la gente, di farla litigare, di farla scontrare nelle piazze, al bar, perfino al desco familiare. Perché? Perché non abbiamo anche noi il giorno del Ringraziamento, la presa della Bastiglia, il compleanno della Regina o qualche occasione del genere in cui sentirci tutti italiani e ragionevolmente fieri di esserlo? (Nota che l’evento celebrato non è molto importante: in teoria, nelle ricorrenze che ho citato dovrebbero festeggiare solo gli americani puritani, i francesi giacobini e gli inglesi monarchici; ma non è così. Semplicemente, si prende un giorno del calendario e si fanno feste e discorsi e piatti speciali per dimostrare amore al proprio paese).

Guardati attorno: le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia sono spente e formali, mezzo paese non le sente e l’altro mezzo le adopera come occasione di polemica. I rappresentanti delle istituzioni fanno quello che possono (alcuni un po’ meno), ma la passione non decolla, l’euforia è andata in vacanza, la festa è un fiasco e non balla nessuno: come al tuo compleanno, quella volta che ci tenevi tanto. Non è stato sempre così. Dagli anni del Risorgimento a quelli della Prima Guerra Mondiale, l’Italia ha conosciuto un periodo di fervore patriottico intenso e sincero. Io non c’ero, ma ho studiato: la cultura, la politica, l’arte di quegli anni è quasi tutta patriottica, seppure in sfumature differenti, e comunica l’impressione che la costruzione di questa patria, il riscatto di una nazione un po’ sfortunata, ma in fondo meritevole di rispetto e d’amore, fosse un proposito ben presente alla mente di quasi tutti gli italiani. Ok, tranne quello che sparò a Umberto I. Anche la mia famiglia, siciliana, agiata e poco incline all’azione, diede il suo piccolo contributo all’impresa dei Mille. E non avevano niente da ripromettersi, in termini pratici, da quel cambio di regime: il fatto è che ci credevano.

Non voglio, né saprei, scrivere un saggio storico: so dei dissidî tra Nord e Sud, dell’autoritarismo spiccio dello stato sabaudo, dei briganti, delle nostalgie cattoliche per il potere temporale della Chiesa e delle aspettative deluse dei mazziniani e degli altri democratici. Ma anche i bavaresi non scoppiavano di gioia quando la Germania fu unificata sotto i prussiani Hohenzollern; e gli Stati Uniti d’America come noi li conosciamo sono il frutto di una lunga, orribile, sanguinosa guerra civile. Tutto sommato, fatti i debiti confronti, gli italiani erano un popolo di patrioti fino a un certo momento. Poi qualcosa si è rotto. Probabilmente, tutto ebbe inizio con l’impossessamento del valore di “Patria” da parte dei fascisti, che produsse per reazione un disgusto verso ogni esaltazione del carattere nazionale da parte degli italiani antifascisti: almeno, questo è ciò che dicono gli storici, e i miei amici intellettuali. È anche vero che, per analogia, il patriottismo sarebbe dovuto scomparire anche in Germania e in Spagna. E se pensi che sia così, parla male della Germania con un tedesco (ma prima indossa un parastinchi). Insomma, diciamo che la crisi di rigetto originata dall’esasperazione nazionalistica del Ventennio è certo un fattore determinante della disaffezione degli italiani verso la loro patria, ma da sola non basta.

Volgi quindi lo sguardo agli anni immediatamente successivi: l’edificazione della democrazia passa per una serie di “riti di purificazione” collettivi, in cui, insieme ai busti di Mussolini, occorre abbattere parecchi altri idoli nazionali colpevoli di compromissione col regime, per prima la monarchia. Poco importa che il re abbia rinnegato il fascismo e si sia schierato al fianco degli alleati, la casa dei Savoia ha perduto il proprio diritto all’amore degli italiani: uno dei primi atti della neonata Repubblica è un editto di esilio comminato ai maschi della ex dinastia regnante, un atto dal sapore arcaico e vendicativo. Non giudico quell’atto nel merito, probabilmente fu giusto e inevitabile: ma fu inequivocabilmente arcaico e vendicativo. Qualcosa di simile avvenne alle forze armate, ai proprietari terrieri, ai filosofi idealisti, agli italiani di certe regioni periferiche: mezza popolazione si ritrovò nell’ingrato ruolo del sorvegliato speciale. Immagino che dopo le guerre civili accadano sempre cose del genere.

Nei primi anni della Repubblica lo scontro politico si svolge tra due forze a vocazione cosmopolita: la Democrazia Cristiana si riallaccia volentieri alla tradizione popolare e cattolica italiana, ma non rivendica certo l’eredità del Risorgimento liberale e un poco massonico; quanto al Partito Comunista, credo che il suo simbolo con il tricolore nascosto dietro la bandiera sovietica descriva fedelmente il grado di patriottismo di quel movimento (tiro fuori le foibe? Ma no, via, lasciamo stare). Un modo maligno di descrivere la situazione è dire che l’Italia poteva scegliere tra gli emissari di due stati esteri, il Vaticano e l’Unione Sovietica: ma questa è solo una battuta, e le battute reazionarie non fanno ridere (gli appassionati di Guareschi si rassegnino). I soli a parlare continuamente di “Patria” e “Nazione” sono i pochi nostalgici che si scaldano alla Fiamma tricolore, compresi quelli che hanno militato nella Repubblica di Salò a fianco degli invasori tedeschi: ci vuole una discreta faccia tosta.

Intanto, un’operazione culturale molto sottile viene gradualmente portata a termine: il ritratto di Giuseppe Garibaldi (l’eroe della nostra unificazione nazionale, il tipo d’uomo a cui si intitolano piazze e scuole elementari) appare, piazzato al centro di una stella rossa, dall’inconfondibile aspetto caucasico, nello stendardo del Fronte Popolare (P.C.I. + P.S.I.) alle elezioni del 1948. Si tratta di un’operazione simbolica, e trafficare coi simboli è sempre rischioso: chiedi a qualunque mago. La Resistenza, una guerra civile in cui italiani combatterono principalmente contro altri italiani, viene elevata a mito fondante: essa, si scrive nei nuovi libri per le scuole, è la continuazione e il perfezionamento del Risorgimento. Quella che vedete, s’insegna ai pargoli, è l’Italia quale doveva diventare. L’Italia ufficiale si identifica con la Repubblica e la sua costituzione. Chi ama la patria ama lo stato (come quando si chiede ai bambini: “Vuoi più bene a mamma o a papà?” Comunque risponda, il piccolo è fregato). Di conseguenza, chi non ama lo stato non è un patriota. E chi vuole cambiare la costituzione, si mette nelle stesse condizioni di quello che sparò a Umberto I. Coloro ai quali il disegno delle istituzioni, dettato dalle paure di un paese appena sopravvissuto a una dittatura e a una guerra, appare presto o tardi inadeguato sono equiparati ad attentatori. Coloro che sostengono tesi storiche difformi dall’apologia della Resistenza, vivono vite di contrabbando. Coloro che non s’identificano appieno col glorioso nuovo corso degli eventi, lentamente divengono dei banditi.

L’espressione “patriottismo costituzionale”, cara agli anziani azionisti, ai presidenti della Repubblica e ai fascisti rifatti, mi ha sempre messo i brividi: equivale a fermare la storia, a chiudere le porte al passato (rimuovendo tutto ciò che un popolo ha vissuto prima della stesura dello statuto), e al futuro (anatemizzando ogni velleità di modificare lo statuto stesso). Se sei un patriota, io credo, ami l’Italia tutta intera: non riduci Machiavelli e Beccaria a preparativi per la costituzione, e non escludi che la storia viva esiga cambiamenti anche radicali nella forma di governo. Col tempo, al patriottismo riveduto e corretto (quello che non ti faceva passare per un trombone o per un neofascista) sono appiccicati altri aggettivi: democratico, repubblicano, europeo, multiculturale, laico… Ogni nuova tessera del mosaico comporta una piccola epurazione, serve a fare di un patriota un cittadino tanto docile all’ideologia dominante, da ricordare quasi un suddito. In particolare, afflati che altrove sarebbero stati considerati decisamente patriottici, come la difesa della tradizione scolastica nazionale, la devozione religiosa, la diffidenza verso l’immigrazione, una certa riottosità contro l’integrazione europea, vengono non solo avversati in quanto comportamenti reazionari (il che, indubbiamente, sono), ma come comportamenti anti-italiani. Chi persevera in tali atteggiamenti è una caricatura, uno che “si merita Alberto Sordi”.

Ecco, ci siamo arrivati: probabilmente avevi già capito dove volevo portarti. L’affermazione del patriottismo repubblicano e costituzionale, come unica forma di patriottismo non sospettabile di tratti autoritari e delinquenziali, ha contribuito in misura rilevante alla disaffezione degli italiani verso la patria e la nazione. Questo modo ideologico e settario d’intendere l’appartenenza a una comunità nazionale ha fatto sì che tanti come me, che pure amano il proprio paese e fanno del loro meglio per tenerlo a galla, non si riconoscano se non assai superficialmente nelle sue raffigurazioni ufficiali. Alcuni hanno deciso come dev’essere “l’Italia che ci piace”, compiendo un impossessamento dei valori nazionali altrettanto arbitrario e stucchevole che quello dell’èra fascista, e ora pretendono che veneriamo il loro feticcio. Ma questo patriottismo rifatto, siliconato, suona falso: come il lardo di Colonnata servito nelle enoteche alla moda, come il Nero d’Avola versato in enormi calici di cristallo da sommelier.

Oggi, a uno come me, viene più facile ammirare (e un poco invidiare) il patriottismo delle altre nazioni occidentali che aderire a quello italiano, suscitato con uno strenuo sforzo volontaristico in occasione del centocinquantenario. Appare più facile celebrare l’irlandese San Patrizio, bevendo una pinta di birra scura, che marciare cantando Verdi. Vorrei, ti prego di credermi, partecipare con cuore commosso e sincero a questa commemorazione; vorrei davvero, oggi, portare in giro una bandiera, abbracciare uno sconosciuto: ma sarebbe alcunché di forzato e pretestuoso, e queste parole (meditate, limate, cento volte fatte e rifatte in me come le lettere di Cyrano) sono il solo contributo che mi sento di dare alla festa.

So che, in tempi di rapida disgregazione dell’unità e dell’identità nazionale, occorrerebbe conferire a questa ricorrenza un valore particolare. So, come appartenente a quell’autentica aristocrazia tra gli italiani che sono i siciliani, che sulle rive del Po c’è gente bassa e senza memoria che pretende di spaccare la patria in due per pagare meno tasse. So che dalle acque insanguinate del Mediterraneo giungono a frotte predoni e mendicanti che vedono la nostra terra come terra di conquista e bottino. E so anche che il popolo italiano, in sé e nei suoi rappresentanti, non ha forse mai avuto meno dignità che in quest’epoca. Ma non posso farci niente. Non mi entusiasma il patriottismo selettivo che sento nell’aria oggi. Non mi va di confondermi con quelli che hanno sbeffeggiato la patria per tutta la vita, che parlano con gli stranieri dell’Italia come se fosse una specie di Nicaragua, che hanno aspettato la salvezza da despoti stranieri e da improbabili rivoluzioni, che con la scusa del multiculturalismo hanno ostracizzato il sentimento nazionale, che quando il popolo italiano “sbaglia” a votare lo trattano come una mandria di ritardati, e che oggi si riscoprono patrioti per rimarcare la loro differenza dai leghisti. Anch’io sono diverso dai leghisti, ma non prendo lezioni di patriottismo dai comici che si credono poeti (nemmeno a cavallo).

L’Italia non nasce con la costituzione del 1948 e nemmeno con il Risorgimento. L’Italia non l’hanno fatta Garibaldi, Cavour, Mussolini, De Gasperi o Berlinguer; e di certo non l’hanno fatta i politici di oggi. Esisteva prima, in versi e pennellate e note e formule matematiche; in chiese e cipressi e borghi e polente fumanti su mense di legno; in sguardi fugaci di sotto i veli e in sguardi terribili di sotto gli elmi; in atti di clemenza e in atti di prevaricazione; nelle fantasie di onnipotenza di papi e imperatori; nell’antichissima pietà e nell’antichissima furbizia di un popolo talmente vecchio da non cadere più nelle trappole della passione. Una nazione non è un’ideologia, non si condivide né si approva: se ne fa parte, come di una famiglia. Essere patrioti significa onorare la terra che ci ha nutriti, la gente che la abita (anche quella volgare, anche quella che non ci somiglia), la lingua che ci hanno insegnata, la religione dei padri (anche se non ci si crede). Significa distogliere una buona volta lo sguardo dall’Italia che ci piacerebbe (quella con l’inno scritto da Paolo Conte, i politici onesti, le auto elettriche e i bambini di tutti i colori, parlo per gli amici progressisti) e imparare a guardare quella reale, combattendoci ma amandone i difetti.