Proteggere Parmalat dai francesi è un errore che risponde a vecchie politiche industriali
21 Marzo 2011
Sarà l’atmosfera magica del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, ma tra le tante parole pronunciate in questi giorni ha trovato modo di comparire anche l’invocazione classica del <Non passa lo straniero>. La multinazionale francese Lactalis ha annunciato di avere in portafoglio l’11,4% della Parmalat e di essere pronta a salire ancora. In risposta, il ministro Giulio Tremonti ha annunciato che il Governo si accinge a varare un provvedimento a tutela – sul modello in uso in Francia, voluto nel 2005 dall’esecutivo guidato da De Villepin – delle imprese strategiche italiane. Le medesime intenzioni sono state esposte dal sottosegretario Gianni Letta all’ambasciatore francese appositamente convocato a Palazzo Chigi. Sarà un segno dei tempi, ma questa discutibile presa di posizione è stata salutata con favore nel nostro Paese. L’autorevole ‘Sole 24 Ore’ ha pubblicato un editoriale di Alessandro Plateroti dal titolo <Così si può giocare ad armi pari>. Persino l’infaticabile (nelle critiche al Governo) Susanna Camusso aveva denunciato <un rischio Bulgari>, aggiungendo subito dopo che in Italia manca una politica industriale.
Quando sentiamo parole come queste ci chiediamo sempre in che cosa consista quella <politica industriale> che ormai costituisce una sorta di frase fatta per la sinistra e la Cgil, forse con un pizzico di nostalgia per la legislazione che, nella seconda metà degli anni ’70 in pieno clima di Solidarietà nazionale, pretendeva di indicare al mondo delle imprese gli obiettivi da perseguire, a cui erano altresì subordinati i finanziamenti pubblici. Proprio così: la logica di quella <politica industriale> era la seguente: è lo Stato che conosce ciò che è bene per l’economia e orienta le imprese in quella direzione concedendo loro le relative risorse.
La Parmalat è sicuramente una bell’azienda, tipica del Made in Italy; ma che i latticini siano da considerare una produzione strategica ricorda molto un’altra epoca, quando era in voga il <Panettone di Stato>. È anche comprensibile sentirsi indispettiti se, da Oltralpe, vengono a fare shopping di imprese da noi. Con i francesi scatta la rivalsa della reciprocità: sono i nostri <cugini> ad aver inventato strumenti legislativi a difesa dei loro campioni nazionali dalle scalate straniere. Ma due torti non fanno mai una ragione.
Gli investimenti stranieri non vanno contrastati ma sollecitati, soprattutto quando si ha l’ambizione di fare dell’Unione europea un interlocutore economico in grado di competere con gli Stati-colossi della globalizzazione. Se regole devono esserci – ammesso e non concesso che quelle vigenti non siano sufficienti – tocca all’Unione individuarle in maniere uniforme e condivisa, senza concessioni all’unilateralismo nazionalista. Senza incamminarsi lungo percorsi protezionisti, stabiliti con leggi nazionali <l’un contro l’altra armata>, è consigliabile incoraggiare – come avvenuto nel caso Alitalia nel 2008 – soluzioni imprenditoriali dai colori nazionali, con una cordata trainata dalla Ferrero.
Non dimentichiamo che Parmalat è un’ azienda che ha subito una crisi devastante, che è stata in grado di sopravvivere e di risanarsi grazie ad una procedura concorsuale gestita da un bravo manager come Enrico Bondi. Ma un’azione è come un cane: esiste se ha un padrone (individuale o collettivo) che ne orienta le decisioni e ne assume la responsabilità. Nel formare le cordate di imprenditori subentranti nel capitale sociale non ha molto senso chiedere il passaporto a chi, oltre alle risorse, ci mette anche la faccia.