L’Arabia Saudita decapita sette persone, ma per l’Onu (e per l’Italia) va tutto bene
03 Dicembre 2017
Lo scorso martedì in Arabia Saudita sono state decapitate sette persone. Malgrado le promesse di riforme, di un “Islam moderato” e di città futuristiche annunciate dal principe ereditario Salman bin Mohamed, a Riyadh si continua a morire per mano del boia di Stato che, armato di spada, su una pubblica piazza mette in scena il più macabro dei reality show la cui cronaca viene trasmessa, senza immagini, anche in televisione.
La notizia, che fa salire a 130 il numero di decapitazioni effettuate da Riyadh da inizio anno, è stata diffusa direttamente dalla SPA, l’agenzia di stampa ufficiale del Regno Saudita. Eppure la concessione alle donne di poter guidare un’auto a partire da giugno 2018, approvata lo scorso ottobre, e il permesso loro accordato di accedere, sempre dal prossimo anno, ai tre stadi delle maggiori città del regno, aveva spinto alcuni osservatori occidentali a parlare di una nova “primavera araba” (il termine usato per indicare i movimenti per la democrazia che si sono sviluppati dalla fine del 2010 al 2011 nel Nord Africa con i miseri risultati che sono seguiti), ma di questa apertura alla moderazione i boia del regime Saudita non sono evidentemente stati informati.
I sette decapitati di martedì, sei yemeniti e un saudita, erano accusati, rispettivamente, di essere parte di una banda di ladri che aveva assassinato una donna e un uomo e di traffico di droga. Accuse provate, secondo Amnesty International, con confessioni ottenute con la tortura, nel corso di interrogatori durante i quali gli imputati non hanno avuto alcuna difesa legale, e i giudizi che hanno portato alle condanne a morte sono segreti. Inoltre non è consuetudine decapitare le donne in pubblico, ma recentemente i boia hanno applicato la loro raccapricciante forma di parità: la televisione saudita ha infatti denunciato la morte con la spada di alcune donne, di solito per crimini di omicidio.
Questa particolare “procedura penale” non ha impedito all’Onu, nel 2015 di nominare un rappresentante di Riyadh a capo del Consiglio per i Diritti Umani e, lo scorso mese di Aprile, l’ingresso dell’Arabia Saudita nella Commissione delle Nazioni Unite a tutela delle donne. Una nomina a cui sono seguiti, appunto, il permesso per le donne di guidare e di entrare negli stadi, ma che non è stata sufficiente per abolire la “regola del guardiano” che impone alle saudite di dover sottostare al volere di un uomo, fosse anche il loro figlio, per poter svolgere i compiti di ogni giorno come viaggiare o lavorare.
Così, mentre a ottobre il principe Salman annunciava, alla presenza del ministro italiano dell’economia Pier Carlo Padoan (l’Italia è il terzo Paese della Ue fornitore del Regno, dopo Germania e Francia, e nono al mondo), un investimento di 500 miliardi di dollari per costruire Neom, un’avveniristica città industriale sul Mar Rosso che si concentrerà sulle industrie della nuova Arabia Saudita, quella del futuro, mentre nell’Arabia Saudita del presente si continua a essere decapitati da un boia. E le donne a essere controllate da un guardiano.