Il jihadismo non risparmia neppure il Kosovo
12 Novembre 2007
Una delle critiche rivolte agli Stati Uniti è di aver messo
il silenziatore sui presunti intrecci tra Al Qaeda e l’UCK, il movimento di liberazione del Kosovo. Com’è possibile che
Washington tolleri la presenza di personaggi legati a Bin Laden in una regione
totalmente controllata dalla NATO? E’ una
storia lunga e terribilmente complicata, ma conviene raccontarla per dimostrare
due tesi. La prima, che gli Stati Uniti non
sono il centro di una cospirazione globale. La seconda, che il presidente Bush
dovrebbe prestare più attenzione ai segnali d’allarme lanciati dai suoi consiglieri,
almeno quelli che gli sono rimasti fedeli.
Il 9 maggio del 2007, l’FBI arresta i fratelli Duka. Quattro
ragazzi di origine albanese entrati illegalmente negli Stati Uniti, che stavano
preparando un attentato contro Fort Dix, in New Jersey. Durante la guerra in
Kosovo (1999), più di quattromila rifugiati albanesi trovarono asilo a Fort
Dix, ma i fratelli Duka lo hanno dimenticato. Dopo l’arresto, il portavoce
della Casa Bianca, Tony Snow, dichiara che non c’è un collegamento diretto tra
i Dukas Brothers e il fondamentalismo islamico. Secondo l’FBI, la banda dei
quattro non è assimilabile ad Al Qaeda, anche se sembra ispirarsi alla stessa
ideologia nichilista. Eppure la famiglia Duka faceva affari a Cherry Hill, una
zona di New York che è considerata il ‘feudo’ di Florin Krasniqui, nazionalista
kosovaro con passaporto americano. Durante la guerra, Krasniqui avrebbe
finanziato (e quindi armato) la guerriglia dell’UCK.
Krasniqui è in buoni rapporti con Niam Behzloulzi, più noto come “Houlzi”,
esponente di spicco dell’esercito di liberazione kosovaro, considerato l’uomo
che nel 2003 fornì ai terroristi l’esplosivo per gli attacchi alla
metropolitana di Londra e alle stazioni di Madrid.
Dicono che Houlzi abbia fatto il suo training del terrore in
Afghanistan, ed è questo particolare che rinforza la tesi della “White Al
Qaeda”, l’Al Qaeda dei Balcani. Il network di Bin Laden avrebbe scelto una
nuova tattica: conquistare i cuori dei giovani europei bianchi per metterli al
servizio del jihad. Questa teoria è la coda di una discussione molto più ampia
intorno al ruolo giocato dai cosiddetti “arabi-afghani” durante la guerra in
Bosnia-Erzegovina. Nei primi anni Novanta, Bin Laden fece convergere nei
Balcani migliaia di mujahideen che si
erano ‘formati’ in Afghanistan, per creare una infrastruttura terroristica da
utilizzare come rampa di lancio per i suoi attacchi contro l’Occidente.
L’Arabia Saudita, l’Iran e le organizzazioni caritatevoli islamiche entrarono
nella partita, rifornendo i mujahideen di armi e documenti falsi. Finita la
guerra in Bosnia, una parte della milizia afgana sarebbe passata in Kosovo per
aiutare i ribelli albanesi a conquistare l’indipendenza dalla Serbia. (Come
pure nel Tetovo, la regione della Macedonia dove la minoranza albanese combatte
inquadrata del National Liberation Army).
Così come all’epoca dell’invasione sovietica
dell’Afghanistan i servizi segreti pakistani gestirono fondi americani per
finanziare i mujahideen, allo stesso modo il jihad islamico in Kosovo sarebbe
un’operazione benedetta da Washington per mettere in ginocchio la Serbia e
contenere la Russia. Un parallelo azzardato ma la politica americana ha comunque
una spiegazione (e qualche ragione). Vedremo quale. Per adesso chiediamoci da che
pulpito viene la predica e come mai puzza tanto di antiamericanismo preventivo.
I documenti sul califfato balcanico sponsorizzato dagli Usa sono saltati fuori
da una memoria difensiva del defunto Slobodan Milosevic, mentre la definizione di “White Al Quaeda” è un
copyright del professor Danko Trifunovic, che insegna all’Università di
Belgrado. Due fonti che sarebbe pazzesco ritenere imparziali. Poi ci sono le
denunce dell’ex ambasciatore canadese in Jugoslavia, James Blisset, ma sappiamo
che il Canada quando può cerca di mettere i bastoni tra le ruote alle politica
estera americana. E’ vero, ci sono ufficiali della Nato che in Kosovo hanno
gridato allo scandalo, ma naturalmente preferiscono mantenere l’anonimato. All’appello
mancano solo qualche pezzo da novanta dei servizi segreti bulgari e macedoni,
l’agenzia stampa russa ItarTass e il
quotidiano inglese Indipendent. Viene
il sospetto che dietro ricostruzioni tanto accurate ci sia un pizzico di propaganda
filoserba, abbastanza da rimpolpare l’odio verso l’Occidente: gli Stati Uniti dicono
di combattere il terrore ma lo usano alle porte dell’Europa, nei Balcani, in
Bosnia e in Kosovo.
La miope politica del presidente Clinton in Bosnia ha
prodotto i guasti che sono alla luce del sole, compresa la saldatura tra
fondamentalismo islamico e resistenza bosniaca. Ma lo stesso discorso vale
anche per l’esercito di liberazione kosovaro? No, non ci si prove sufficienti
per dimostrare che l’UCK è un’emanazione
diretta di Al Quaeda (anche se è verosimile che i mujahideen siano stati usati
per il lavoro sporco). Se mai, si può parlare di sottovalutazione da parte del
presidente Clinton. Anche Tony Blair commise un grave errore ‘incoraggiando’ i
jihadisti della comunità islamica inglese a partire per il fronte kosovaro. Questa
politica contraddittoria troverà un seguito con Hillary Clinton? Se vincerà la
corsa alla Casa Bianca, probabilmente Hillary si circonderà degli stessi
consiglieri che gestirono la crisi balcanica degli anni novanta e che si sono
guadagnati l’eterna riconoscenza della potente lobby albanese di Washington.
Richard Holbrooke, Wesley Clark, Madelein Albright. Dovrebbero essere i
democratici a fare un po’ di chiarezza sulla jugo-connection.
Fatto sta che l’arrivo della carovana jihadista nei Balcani è
confermata da fonti inequivocabili. Ne parla l’autorevole Jane’s International Defense Review: c’è un piano saudita per
islamizzare l’Albania, destinata a diventare l’“hub” del wahabbismo in Europa.
La NBC ha diffuso materiale compromettente per la CIA, smascherando Muhammad
Talal al-Jafar, che prestò servizio sotto copertura per gli americani in
Afghanistan, Bosnia e Kosovo, prima di diventare un pezzo grosso della
intelligence quaidista. Nel gennaio del 2005, il Center for Strategic & International Studies di Washington ha
confermato la presenza di gruppi di estremisti islamici in Kosovo, i Vehabija, la Crvena Ruza, il Teratikt,
tutti sodali di Al Quaeda. La Gazeta
Shqiptare ha ricordato l’arresto di Amoid Naji, fermato in Italia, a
Torino, prima di organizzare un attentato contro l’ambasciata americana a
Tirana. Insomma in Kosovo sono stati fatti degli errori, anche se da qui a dire
che si brindava allegramente con il peggior nemico dell’America suona un po’
esagerato. Di nuovo, l’impressione è che lo spettro della “White Al Quaeda”
serva a delegittimare le rivendicazioni dei kosovari albanesi. Quelli dell’UCK non
sono tutti collusi o sporchi terroristi.
L’accusa di tacere sulle attività di Al Qaeda nei Balcani naturalmente
è toccata anche al presidente Bush. In effetti il Kosovo non è mai stato in
cima all’agenda dell’amministrazione. Se scorriamo i papers pubblicati dall’AEI, l’ultimo articolo sul Kosovo risale al
2005. Lo ha scritto Vance Serchuk e si intitola The Future of Kosovo. Un triste domani se pensiamo che l’autore,
senza giri di parole, definisce la regione un Trashcanistan, uno di quegli “stati e staterelli parassiti” che
crescono all’ombra dell’economia mafiosa e nascono in nome (o con la scusa?)
del principio di autodeterminazione. Il Kosovo sarebbe nient’altro che un frutto
marcio del collasso sovietico, uno dei tanti, dall’Europa Orientale all’Asia
Centrale c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Nicholas Burns, l’architetto dell’amministrazione Bush nei
Balcani, in una conferenza stampa che si svolse a Pristina nell’estate del 2005
aveva detto: “Noi pensiamo che è davvero il momento di definire il futuro del
Kosovo”, ma l’impegno degli Stati Uniti si può riassumere più efficacemente
citando un saggio di Robert Kaplan uscito nel 1993, Balkan Ghosts: “Milosevic è stato l’unico leader comunista europeo
che ha lavorato per salvare se stesso e il suo partito dal collasso” e ci è
riuscito benissimo, appellandosi al razzismo più rozzo e viscerale. Dopo la
caduta del Muro di Berlino, il grande nemico degli Stati in Europa era lui. Ma
nel declino del regime serbo si preparavano altri e ben più pericolosi avversari,
come ha dimostrato l’11 Settembre.
In realtà i neoconservatori non hanno mai taciuto sui rischi
che gli Stati Uniti e l’Occidente corrono abbracciando senza riserve la causa
dell’indipendenza kosovara. Dopo l’attacco sventato a Fort Dix, in occasione di
un simposio promosso dalla National
Review e dedicato al Jihad in Jersey,
lo storico Daniel Pipes ha detto che la storia dei fratelli Duka impartisce una
grande lezione all’America: “Gli immigrati che cercano rifugio in Occidente
devono essere messi sulla graticola per verificare la loro adesione verso la
nostra civiltà, la nostra religione e il nostro sistema politico”. Anche quando
si tratta di simpatizzanti, c’è sempre qualcuno più scalmanato di altri che si
sente preso in giro (la Albright promise un referendum ai kosovari addirittura
nel ’99!) e che può dare di matto, com’è accaduto ai Dukas. Che si tratti di profughi somali in Gran Bretagna, algerini
in Francia, balcanici negli Stati Uniti, esiste un rischio concreto che il
rifugiato prima chieda aiuto – guadagnandosi il privilegio e i benefici di una
nuova vita – ma poi torni a colpire a tradimento i suoi concittadini. Questo
modello è inaccettabile, dice Pipes, e deve essere sottoposto a verifica per
prevenire altre atrocità in futuro. Detto questo, vale la pena ricordare che il
Washington Post parlando dei fratelli Duka ha messo le virgolette sulla parola
jihadisti.
Il giornalista e scrittore Stephen Schwartz ci mette in
guardia dalla propaganda filoserba e antiamericana. Il vero “Asse del Male” era
quello costituito dalla Serbia di Milosevic, l’Iraq di Saddam Hussein e
l’Arabia Saudita. Schwartz è un dissidente di sinistra che oggi si dichiara
neoconservatore. Musulmano praticante, non ha mai smesso di criticare il
fondamentalismo islamico. Ha vissuto e viaggiato nei Balcani raccontando la
Sarajevo del dopoguerra. Schwartz fa parte di quell’ala irriducibile di
consiglieri del presidente Bush a cui è stata messa la museruola, ma che
rappresenta l’anima più orgogliosa e leale del movimento neoconservatore. Se
ascoltiamo come la pensa Schwartz sui Balcani vengono in mente le (belle) illusioni
di David Frum e Richard Perle, quando questi intellettuali poco inclini al
compromesso e alle giravolte delle macchine diplomatiche scrivevano che l’unico
modo per spezzare le gambe al terrorismo islamista era colpire il bunker del
totalitarismo, l’Arabia Saudita. Schwartz ci crede ancora, ha criticato Bush
per i legami mai interrotti con la petrocrazia saudita, ma è rimasto
inascoltato. Fa un po’ male vedere queste teste d’uovo che vengono spinte ai
margini, costrette addirittura a discolparsi dall’infamante calunnia di tramare
con il nemico.
Per Schwartz la jugo-connection era un affare di svariati milioni
di dollari tra Serbia e Iraq, ecco come sono andate le cose. Venivano da
Belgrado i missili venduti a saldi a Baghdad, le armi chimiche che Saddam
utilizzò per gasare i curdi e gli sciiti. Milosevic ha fatto ammazzare
centinaia di migliaia di musulmani bosniaci e albanesi mentre si arricchiva
grazie al Rais di Baghdad e ai reucci di Riyad. Grazie a questi alleati, la
Serbia ha reintrodotto il fascismo in Europa – campi di concentramento e
pulizia etnica comprese. Eccolo l’asse fascista, a cui si sono aggiunti l’Iran
e la Russia, tra i principali partner economici della Serbia postcomunista.
Ci sono sempre stati due tipi di mujahideen. Quelli come Bin
Laden e i Taliban, ma anche quelli come il comandante Massud, che cavalcavano
al fianco di Rambo per respingere i carri armati sovietici. Una volta il
presidente Ronald Reagan disse che i mujahideen “sono combattenti che difendono
i principi di indipendenza e libertà che formano le basi della sicurezza e
della stabilità globali”. Probabilmente l’UCK
rientra in questa categoria. Il movimento di liberazione albanese non ha ancora
perso quella forza progressiva di cui parlava Reagan, anche se dovesse
risultare positivo all’antidoping fondamentalista.
La sconfitta di Milosevic e l’indipendenza del Kosovo
restano battaglie democratiche che hanno limitato la sovranità di miserevoli
dittature. Queste guerre contro il totalitarismo hanno contribuito a diffondere
la democrazia in Europa Orientale e, almeno in parte, in Medio Oriente. Se non
vogliamo che questi risultati siano rimessi in discussione, il presidente Bush,
e ancora di più il suo successore, dovranno prestare ascolto a chi, come
Schwartz, racconta che il Kosovo non è un esempio di laicità. Fuori Pristina
esistono villaggi dove crescono le moschee dei sauditi e i giovani albanesi
vengono indottrinati come se fossero in Afghanistan. Ci sono mujahideen ‘buoni’
e mujahideen ‘cattivi’. In ogni caso, come disse Brzezinsky, “cosa è più
importante per la storia del mondo? I talebani o il collasso dell’Impero
sovietico?”. La risposta è tremendamente attuale.