Macché «Think different»! A Google se la pensi diversamente sei licenziato…
14 Agosto 2017
Venerdì scorso un artista di strada americano, Sabo, ha riempito di poster e bandiere le strade attorno agli uffici di Google a Venice, in California, dopo che la compagnia americana aveva licenziato un proprio impiegato colpevole di aver messo in discussione con un memorandum interno la politica sulle “quote rosa” seguita dall’azienda.
Con un gesto di irriverente demistificazione dei valori propagandati dai padroni del web – la libertà di espressione come lo spirito di condivisione con i propri dipendenti -, Sabo ha accostato due immagini eloquenti: l’ormai abusato slogan di Steve Jobs, “Think different”, “Pensa in modo diverso”, con un’altra immagine che ritrae invece il Ceo di Google, Sundor Pichai, e sotto la scritta “ma non troppo”. Un chiaro riferimento alla storia dell’impiegato di Google licenziato per aver detto come la pensa, e cioè che esistono delle differenze tra i due sessi e che la diversità tra uomini e donne viene depressa dalle politiche aziendali dei ‘googlocrati’, subordinate come sono alla ideologia del politicamente corretto (dalle “quote rosa” alla teoria del gender).
“Think different”, si legge su un’altra bandiera appesa da Sabo ai tralicci per le strade della California, “Pensa diversamente”, con sotto il logo di Google e la scritta “licenziato”. Sabo ha anche attaccato un poster su una panchina riprendendo un neologismo coniato dall’impiegato che ha perso il posto per le sue idee, “Goolag”, gioco di parole tra Google e gulag, i campi di lavoro e di rieducazione sovietici. Nel poster si vede anche la ormai celebre casellina bianca per la ricerca di Google, con dentro la frase “cerca la diversità di pensiero da qualsiasi altra parte”, ma non nel mondo di Google. Poster e ‘bandiere’ di Sabo hanno viaggiato com’era prevedibile alla velocità della luce sui social media, diventando un tormentone su Twitter, visto che un bel po’ di gente del quartiere si è fermata per strada facendo fotografie con il proprio smartphone e postando sui social le immagini dell’artista.
Sabo è un ex marine che dopo aver combattuto per il suo Paese torna a casa all’inizio degli anni Novanta e si trova a fare i conti con la dittatura del pensiero dominante, in una terra, la California “liberal”, che oggi chiederebbe volentieri la secessione dall’America trumpista, e dove l’arte di strada, negli anni passati, più che farsi avanguardia culturale è stata soprattutto una forma di propaganda obamiana.
Aggiungiamo che gli scambi tra obamiani, partito democratico e personale di Google sono stati frequenti e numerosi, insomma l’agenda dei Democratici viene ampiamente sostenuta e fatta dilagare su Internet dal gigante di Mountain View.
Tempo fa il Washington Post ha dedicato a Sabo un ritratto neanche troppo spiacevole, descrivendolo come una sorta di Banksy conservatore (Banksy, il writer inglese, viene considerato da molti il caposcuola della street art), e a pensarci bene, che si sia trattato o meno di una operazione di guerrilla marketing, la campagna anti-googlesca di Sabo rappresenta comunque uno scarto, una deviazione dal codice culturale dominante.
Il muro del politicamente corretto sta iniziando a sgretolarsi dentro e fuori le mura di Google, tra impiegati che si ribellano e artisti di strada che amplificano il dissenso. Sono come tante esplosioni nell’impero che sembrava indistruttibile del pensiero unico, segnali di un cambio di paradigma culturale che è iniziato in America con la discesa in campo e poi con la travolgente vittoria di Donald Trump.