Anche Cristoforo Colombo arruolato tra i “suprematisti bianchi”
25 Agosto 2017
Il consiglio comunale di Oberlin, in Ohio, negli Stati Uniti, ha votato all’unanimità per l’abolizione del “Columbus Day”, la giornata che commemora lo sbarco di Cristoforo Colombo nel ‘Nuovo Mondo’. Secondo i membri del consiglio comunale, che durante il voto si sono aspramente scontrati con i cittadini presenti alla riunione contrari alla decisione, da oggi la festività del “Columbus Day” va sostituita con l’“Indigenous People’s Day”, dedicato alla memoria dei nativi americani. Peccato che solo lo 0,2 per cento dei residenti di Oberlin, secondo il censimento del 2010, siano discendenti dei nativi. Siamo al delirio di onnipotenza del politicamente corretto come deliranti appaiono le parole di uno dei manifestanti che nei giorni precedenti, a Columbus, la capitale dell’Ohio, ha spiegato che “Cristoforo Colombo era un agente e continua a rappresentare un simbolo del genocidio degli indigeni americani”.
La decisione del consiglio comunale di Oberlin però sembra aver fatto scuola e adesso anche a New York ci sono rappresentanti del consiglio comunale impegnati a decidere se le statue di Colombo resteranno nei parchi di Manhattan, come ha scritto il New York Post. Il sindaco della Grande Mela, Bill De Blasio, che per inciso ha origini italo-americane, invece di opporsi con decisione a questa nuova ondata di politicamente corretto, che parte proprio dall’interno della sua amministrazione, per adesso si è trincerato dietro l’ambiguità: “Stiamo valutando cosa fare con tutte le statue e i monumenti che in qualche modo possono suggerire odio o razzismo o antisemitismo, qualsiasi tipo di messaggio che vada contro il valori di New York”. Ma per De Blasio, Cristoforo Colombo fu o meno un antesignano dei “suprematisti bianchi”, espressione di gran voga tra i giornali liberal per stigmatizzare chiunque provi a dire la sua su questioni come questa, uscendo dal recinto del politically correct? Ecco la domanda a cui il sindaco dovrebbe rispondere, “sì” o “no”.
L’opera di demolizione della storia e della identità americana sta continuando, dopo che nelle scorse settimane gli “agenti” del politicamente corretto (che i giornaloni Usa chiamano affettuosamente “antirazzisti” o “antifascisti”) avevano prima cercato di rimuovere con la forza le statue di generali “sudisti”, confederati, protagonisti della Guerra civile americana, insomma, e successivamente persino la statua di George Washington, il presidente Usa, accusato di essere un pericoloso “schiavista”. Continuiamo a documentare cosa sta accadendo negli Usa perché guardando i telegiornali italiani abbiamo come l’impressione che nel nostro Paese non ci si renda conto della violenta campagna di intimidazione e contro la libertà di parola che è in atto dall’altra parte dell’Atlantico.
Com’è accaduto a Boston non più di una settimana fa, quando si è cercato di impedire a tutti i costi una manifestazione della destra trumpista proprio a favore della libertà di parola, definendo, ancora una volta, “suprematisti bianchi” tutti quelli che vi prendevano parte, nessuno escluso. Ecco, chi, nei giornali, nei media, nei partiti politici e nella società civile, avalla queste campagne di odio contro i simboli della storia americana e contro il valore fondante della democrazia Usa, che è proprio la libertà di parola, forse non si rende conto o forse se ne rende conto fin troppo bene di legittimare atteggiamenti criminali indotti dal pensiero dominante.
Il mese scorso è passato a miglior vita Bob Whitaker, politico Usa e uomo della amministrazione Reagan, tra gli architetti di quel travaso di voti dei Democratici del Sud, classi popolari e “colletti blu”, dal partito democratico verso quello repubblicano ai tempi della vittoria di Reagan. Un po’ com’è accaduto con Trump, capace di soffiare i voti ai clintoniani proprio negli stati a tradizionale insediamento democratico. Tanto per dire qual è la risposta del popolo americano, non di quei quattro raccattati che i giornaloni si affrettano a definire la maggioranza degli americani, quando a quel popolo viene data la possibilità di esprimersi liberamente.
La democrazia americana però, diceva Whitaker, è in pericolo. Il politico repubblicano era convinto che in America fosse in atto un “genocidio” culturale contro i bianchi e una volta disse che “l’antirazzismo è solo una parola in codice per esprimere sentimenti contro i bianchi”. Occhio però che a ricordare troppo Whitaker come un campione della libertà di parola si finisce per rientrare subito nella ormai usurata categoria dei “suprematisti bianchi”.