L’Europa divisa sul Kosovo apre la strada a nuove tragedie
26 Novembre 2007
Per la prima volta dal
febbraio 2007, il negoziato sullo status del Kosovo ha ripreso slancio. Poiché il Piano di Ahtisaari, che propone la
supervisione europea di una indipendenza condizionale, non è riuscito a passare
al Consiglio di Sicurezza, la nuova soluzione diplomatica questa volta evita di
passare per l’ONU. Prevede infatti che il Kosovo dichiari l’indipendenza
unilateralmente, e che gli Stati Uniti e un certo numero di paesi europei la
riconoscano. Negli ambienti diplomatici questa sembra essere la soluzione più
pratica e realistica: accontenta gli albanesi del Kosovo; aggira il veto della
Russia a qualsiasi risoluzione ONU che menzioni la parola indipendenza; e
resuscita il piano di Ahtisaari, prevedendo che il Kosovo sarà sotto il
management dell’Unione Europea per un tempo indefinito.
Il guaio è che la maggior
parte dei paesi europei sono a favore dell’indipendenza del Kosovo solo obtorto collo, anzi alcuni sono
totalmente contro. Incapaci di prendere la leadership sulla questione, e
stanchi di un negoziato tra serbi e albanesi che si trascina in modo inconcludente,
i paesi europei hanno fatto come Ponzio Pilato, lasciando a Pristina la decisione
sullo status. In Kosovo, l’ex leader dell’UCK Hashim Thaci è il vincitore delle elezioni di sabato
scorso e si prevede che diventerà Primo Ministro. Soddisfatto dei nuovi
sviluppi diplomatici, ha già promesso che dichiarerà l’indipendenza dopo il 10 dicembre,
più probabilmente all’inizio del 2008. Conta che gli USA e la maggior parte dei
paesi europei riconoscerà l’indipendenza del Kosovo.
Ma nel caso che questo
scenario si realizzi, è bene essere preparati a ciò che seguirà. Albin Kurti, per esempio,
pensa che il piano dei diplomatici e dei leader kosovari faccia acqua da tutte
le parti. Il leader del movimento “Auto-Determinazione” si èopposto fin
dall’inizio sia al negoziato sullo status che al piano di Ahtisaari. Dallo
scorso febbraio, quando la polizia dell’ONU ha sparato su una manifestazione da
lui organizzata uccidendo due militanti di Auto-Determinazione, Kurti è stato o
in prigione o agli arresti domiciliari. (Una inchiesta condotta da un giudice
internazionale ha concluso che solo la polizia è responsabile per i due
decessi, ma l’ONU ha mandato a casa gli agenti rumeni coinvolti nell’incidente
e indiziato Kurti. Una corte di tre giudici internazionali – il presidente è italiano
– lo ha tenuto in prigione per tutto questo tempo, in un processo che è
chiaramente politico e sotto il mirino degli osservatori di Helsinki). Kurti
desidera l’indipendenza del Kosovo più di ogni altra cosa al mondo, ma pensa
che una dichiarazione unilaterale non sia il modo migliore di ottenerla: “Nel
1992 gli Stati Uniti riconobbero l’ indipendenza della Bosnia Herzegovina, una
decisione che fu seguita dall’embargo sulle armi. Tutti sappiamo cosa poi è successo
in Bosnia dal 1992 al 1995. Come la Bosnia, il Kosovo non sarà in grado di difendersi;
non ha un esercito”.
L’annuncio che la NATO
ha preparato dei piani di contingenza per gestire la potenziale violenza che
seguirà alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo dovrebbe essere
rassicurante. Non lo è. I peacekeepers
della NATO non sono in grado di garantire la sicurezza del Kosovo, come hanno
ampiamente dimostrato dopo la guerra. Non hanno mai smantellato le forze di
sicurezza serbe, che nel febbraio del 2000 fecero pulizia etnica nel nord del
paese, quando un pogrom uccise 10 albanesi nelle proprie case. Le truppe NATO
non si sono comportate meglio nel sud: messe di fronte alla violenza di folle di albanesi, si sono limitate a
scortare i cittadini serbi in posti sicuri, lasciando che le loro case e le
chiese fossero bruciate.
Dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza, il
Kosovo sarà seriamente minacciato della perdita del nord. E grazie ad
Ahtisaari, dovrà confrontarsi con le
aree di sovranità serba che il piano del diplomatico finnico stabilisce nel
sud, creando una fonte inevitabile di tensione. I segnali di allarme per la
sicurezza aumenteranno a dismisura in questo scenario. Come possiamo pensare
che la NATO sia davvero pronta ad affrontare tutto ciò? In questione non è la
competenza degli ottimi eserciti che compongono la missione NATO in Kosovo, o
KFOR, ma il loro mandato. In altre parole, il problema è l’incapacità sistemica
dei peacekeepers di mantenere la pace quando scoppia la violenza.
I posti di frontiera nel
nord controllati dalle truppe internazionali, che furono distrutti nel marzo
del 2004 dai serbi sono stati riattivati e rafforzati, dicono. Ma la presenza
della NATO nel nord del Kosovo potrebbe scomparire alla prima minaccia di
violenza da parte di una popolazione serba inferocita all’idea di un Kosovo
indipendente. Ma questo è niente a confronto di ciò che potrebbe succedere.
Con l’accordo di Helsinki
del 18 giugno 1999, all’esercito russo fu garantito un ruolo nelle operazioni
di pace della NATO in Kosovo. E’ in verità un ruolo molto limitato e definito,
secondo il mandato della Risoluzione ONU 1244, che riafferma la sovranità della
Serbia sul Kosovo. Non esiste alcuna assicurazione che la Russia si terrà
lontana dalla provincia nel caso di una dichiarazione di indipendenza. Si
guardi alla ‘creatività’ di Putin nell’interpretare la cooperazione
internazionale. Ha appena costruito un blocco di paesi dell’Est dentro l’OSCE
per sostenere un ruolo militare più deciso dell’organizzazione – un tentativo
esplicito di interferire con la NATO. Nel caso di un intervento russo nel
Kosovo, cosa farà la NATO?
La linea tracciata lungo il
fiume Ibar, che taglia a metà la città di Mitrovica nel nord della regione un
ricordo permanente di cosa significa la mancanza di sicurezza per il Kosovo.
12,500 albanesi vivevano a Mitrovica prima della guerra, ora ne restano solo
2,500 secondo Jelena Bjelica, direttore del giornale in lingua serba del
Kosovo, Gradanski Glasnik. Belgrado ha destinato 17,5 milioni di euro per le
infrastrutture del Kosovo, ma i soldi sono andati ad acquistare le proprietà
albanesi nel nord che è sotto controllo serbo. Gli albanesi a loro volta si
sono trasferiti a Svinjare, un villaggio appena a sud di Mitrovica, dove hanno
acquistato le case dei serbi che il governo del Kosovo ha ricostruito dopo le violenze del marzo
2004. Sibin Drobanjakovic, uno dei pochi serbi rimasti a Svinjare, ha detto
alla Bjelica che non ha alcuna fiducia nella capacita dell’ONU di proteggerlo.
La morale è che nessuna delle due
comunità si sente sicura. Le divisioni tra loro sono aumentate, non diminuite
dopo otto anni di gestione ONU e NATO.
Per muovere il Kosovo
dalla condizione attuale di protettorato
fallito a stato funzionante, l’Unione Europea deve fare molto di più che
inviare una nuova burocrazia ad implementare il piano di Ahtisaari e lavarsi le
mani della questione dello status. Deve trovare l’unità necessaria per
riconoscere l’indipendenza del Kosovo con una sola voce, rendere pubblica la
decisione, e implementarla con l’aiuto delle forze NATO già sul terreno, ma il
cui mandato non può essere più solo di peacekeeping. L’alternativa è di mettere
la fragilissima sicurezza del Kosovo nelle mani di un consorzio di truppe le
cui differenti capitali hanno idee diverse di cosa deve diventare questo luogo.
Non é certo questo il modo di costruire il Kosovo che l’Unione Europea intende
costruire: un paese stabile in una regione stabile dove i diritti – delle
minoranze e delle maggioranze che anelano all’autodeterminazione – siano
rispettati e si smetta di uccidere.