Su immigrazione e precariato c’è bisogno di idee nuove. Anche dall’opposizione
10 Dicembre 2007
Due
spettri si aggirano per l’Italia suscitando preoccupazione ed insicurezza a
livelli oggettivamente superiori rispetto alla loro effettiva consistenza.
I
dati sono lì a dimostrare che non esiste, in ambedue i casi, una situazione di
intollerabile emergenza, ma che anzi siamo appena agli inizi di fenomeni
inevitabili, intrinseci all’era della globalizzazione e dell’integrazione dei
mercati, che in altri Paesi le medesime fattispecie si presentano con maggiori
intensità, violenza ed accelerazione.
Eppure la gente in carne ed ossa non
parla d’altro ed è pronta a credere nei primi ciarlatani che lascino
intravedere la possibilità di tornare – solo a volerlo – agli standard del “piccolo mondo antico”.
Così, una politica priva di principi, di ideali
forti e di “capacità di fare” non si dà cura di guidare il “popolo”
ad accettare, in una logica di convivenza e di adeguamento, contesti e
situazioni che appartengono alla modernizzazione della società (un processo,
questo, che non avanza sempre in modo rettilineo lungo il sentiero del
progresso, ma che richiede spesso strappi, rotture e sacrifici), ma
strumentalizza i sentimenti d’insicurezza diffusa – e talvolta solo “percepita” – per perseguire dei
facili vantaggi elettorali a scapito dei propri avversari.
Senza rendersi conto dei danni profondi che
tale linea di condotta determina, fino ad “avvelenare i pozzi” della
comunità civile.
Gli spettri sono, da un lato, l’immigrazione e le
trasformazioni del lavoro, dall’altro, ormai definite – persino nei testi di
legge – come condizioni di precarietà. Questi fenomeni – ambedue discendenti
dalla globalizzazione dell’economia e dall’apertura dei confini – producono
sentimenti e aspettative di insicurezza assolutamente esagerati, smentiti dai
dati di fatto e dalle statistiche ufficiali, ma si avvitano insieme in quegli idola
tribus che, in una società organizzata,
diventano verità effettive anche quando sono soltanto sensazioni
percepite.
Succede così che la sinistra
– temendo che l’iniziativa della destra contro l’immigrazione selvaggia possa
avvantaggiarla nel consenso popolare – si impantani in una decretazione
d’urgenza criticata in tutta Europa, al punto da consentire al premier rumeno
di accusare il governo italiano di razzismo.
Ma succede pure che un’odiosa campagna contro la precarietà – costruita
su dati falsi ed orchestrata da un’assurda ed irresponsabile campagna
massmediatica – faccia breccia nell’opinione pubblica e sia caricata di ogni
possibile nefandezza, persino della tragedia delle “morti bianche” (che
in Italia sono in numero inferiore della media europea e di quelle di Francia e
Germania).
Il centro destra ha il dovere di ristabilire la verità e di
difendere la moderna legislazione del lavoro dell’ultimo decennio, intessuta di
coerenze e di linearità (solo un’odiosa faziosità continua a contrapporre la
legge Biagi al pacchetto Treu). “L’Italia ha fatto notevoli passi in avanti – ha
dichiarato recentemente Carlo Dell’Aringa – sul fronte della riduzione della
rigidità del mercato del lavoro e che a questa maggiore flessibilità è
corrisposto un forte incremento dell’occupazione. Se si considera – ha
proseguito – il tasso di occupazione dal 1997 al 2006 si vede che siamo
cresciuti dal 51,5% al 58,4%. Una performance eccezionale – sono sempre parole
di Dell’Aringa – soprattutto se si pensa che è avvenuta in un periodo in cui
l’economia è cresciuta molto lentamente”.
Ma non basta più la logica del bicchiere mezzo pieno: delle risposte
vanno date.
Come la sinistra non è convincente quando predica il lassismo nei confronti
dell’immigrazione, così il centro destra non può sperare di convincere gli
italiani ad accontentarsi del meno peggio perché il lavoro stabile appartiene
ad una fase dello sviluppo tramontata e la regola del futuro sarà la
flessibilità.
In tema di lavoro, la sinistra commette l’errore di pensare che
bastino delle norme per invertire una tendenza dell’economia e alla fine si
riduce a stabilizzare quanti hanno avuto la fortuna di appoggiare i loro “magnanimi lombi” su di una sedia ubicata in un ufficio della pubblica
amministrazione.
Il centro destra deve mettere in campo delle proposte nuove in
materia di lavoro e di welfare.
Deve saper indicare un’altra scala di
convenienze in grado di interagire con alcune forze sociali (i giovani prima di
tutto) interessate a trovare nel cambiamento delle diverse garanzie. La
sinistra cerca di tenere insieme insiders e outsiders, anziani e giovani,
facendo delle promesse insostenibili, come se i privilegi dei primi potessero
essere estesi anche ai secondi soltanto a volerlo fare. Il centro destra deve
sparigliare i giochi e darsi dei riferimenti sociali, dimostrando che un nuovo
ordine può nascere soltanto dalla rottura delle alleanze sociali della
sinistra.
Non occorrerebbe molta fantasia. Basterebbe rileggere il Libro bianco curato da Marco
Biagi, laddove parlava di riforma “simmetrica” sia del contratto a tempo indeterminato sia di quello a termine,
che renderebbe “meno difficoltoso il passaggio a condizioni di lavoro stabile
per i lavoratori che iniziano il proprio percorso con occupazioni
temporanee”. O quando, a proposito dello Statuto dei lavori, Marco scriveva
che era da ritenersi ormai superato il tradizionale approccio regolatorio delle
differenti tipologie di lavoro, mentre era “indispensabile una complessiva
rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro innanzitutto
estendendo livelli minimi di tutela a tutte le forme in cui si estrinseca
l’attività lavorativa”. O quando ipotizzava percorsi “a garanzia
dell’effettiva volontà del lavoratore (per realizzare una sorta di derogabilità assistita secondo meccanismi di certificazione e/o validazione
della volontà individuale), ad opera di istituzioni pubbliche o anche delle
stesse parti sociali, al fine di corrispondere alle attese di flessibilità delle
imprese ma anche alle nuove soggettività dei prestatori di lavoro”.
Anche
sul welfare c’è bisogno d’innovazione. Nel campo delle forme di protezione
sociale esiste una differenza sostanziale tra il lavoratore e il cittadino.
Solo il primo è titolare di veri e propri diritti sociali. Al secondo è
riconosciuta solo una tutela residuale.
Spetta al Popolo della libertà proporre
un’impostazione differente che si basi su di una nuova generazione di diritti
di cittadinanza, inclusivi di un ampio ventaglio di diritti sociali (reddito di
cittadinanza, pensione di base, salario minimo, tutela della non
autosufficienza), fondati sui principi della sussidiarietà e dell’integrazione tra pubblico e privato.
Lungo questa via il centro destra sarebbe in grado di proporre un’alternativa
alle pratiche di concertazione (che altro non sono se non la difesa delle
vecchie alleanze sociali) e di promuovere anche nuove soggettività e nuovi
protagonismi da parte degli interessi oggi esclusi od emarginati. In fondo è la
medesima logica che dovrebbe condurre il centro destra a qualificarsi come la forza politica che
prende a riferimento i meriti e i bisogni e su di essi costruisce quella nuova
coalizione di forze ed interessi sociali orientati alla modernizzazione del
Paese.
Ecco perché non basta più
difendere la legge Biagi. Le intuizioni di Marco devono essere sviluppate e
rese feconde.