Bugie e luoghi comuni sul mondo dei precari

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Bugie e luoghi comuni sul mondo dei precari

Bugie e luoghi comuni sul mondo dei precari

07 Gennaio 2008

E’ il prodotto di un’alleanza tra cattiva politica e
informazione in parte asservita e in parte stupida. Ma ormai sui media, nei
talk show “s’avanza uno strano soldato”: il precario. Tanto che, se ci
sapessero fare e non dovessero stare attente a chi vuol incendiare le loro
sedi, le agenzie del lavoro potrebbero farsi pubblicità esponendo un manifesto
con il seguente slogan: “Diventa precario. Girerai il mondo”.

Infatti, se sei
giovane e co.co.co e sei un pochino svelto, hai un avvenire assicurato. Puoi mettere
in calendario parecchie presenze in tv dove potrai raccontare le tue
disavventure. E se sai scrivere (non importa una confidenza stretta con la
grammatica, anzi è meglio il contrario) troverai certamente degli editori che
ti faranno scrivere un libro, in cui racconti come sei stato perseguitato dalla
legge Biagi.

Nessuno si prenderà il disturbo di controllare date e circostanze
(è capitato persino che qualcuno abbia evocato i guasti della legge n.30 del
2003 per eventi a lui capitati nel 1995). Ormai contano soltanto i luoghi
comuni; e guai a metterli in discussione, a provare di confutare tesi
precostituite. La verità accettata è solo quella ufficiale, anche se non è
sorretta da riferimenti adeguati e convincenti. Chi non si adegua, diventa una
voce fuori dal coro. E perciò un “uomo da bruciare”, un nemico.

Mentre il
nostro precario, corteggiato e compianto, ostenta le piaghe della sua
condizione e recita la litania che abbiamo sentito o letto centinaia di volte:
che non ha sicurezze per il futuro, che non è in grado di formare un nucleo
familiare, di acquistare una casa e di vivere una vita dignitosa, se non grazie
al contributo della famiglia di origine con la quale continua ad abitare. E che
gli assicura l’automobile, un paio di cellulari, le vacanze dall’altra parte
del mondo, capi di abbigliamento rigorosamente “firmati”: il minimo
indispensabile, dunque.

E giù a maledire il lavoro flessibile, il part time, le
varie tipologie di rapporti “cattivi”, responsabili della “caduta
dell’angelo” dal Paradiso dell’agognata stabilità. Mentre il vate Luciano
Gallino denuncia le violazioni di una Convenzione di Filadelfia nota solo
a  lui.

Dalli al call center!

Per trovare qualcuno che sappia recitare magistralmente il ruolo del
precario (ricordate la battuta di uno dei primi film di Nanni Moretti: “E’ un
giovane molto bravo a far la parte del giovane”?) basta andare in uno dei tanti
call center. Questi posti di lavoro sono considerati alla stregua delle galere
veneziane o dei campi di cotone del nuovo secolo. Di essi si parla come se
fossero una tappa obbligata dell’occupazione giovanile se non addirittura la
sola opportunità lavorativa per i giovani italiani, dove, dopo pochi anni,
scatta la trappola della precarietà. Ma quanti sono le persone occupate nei call
center? Il settore è in forte espansione perché le sue modalità operative
rispondono ad esigenze di riorganizzazione del front office degli enti
pubblici, delle aziende di servizi e di tante altre realtà. Si tratta di misure
di outsourcing che vanno incontro alle necessità degli utenti, stanchi
di colloquiare inutilmente coi vecchi centralini della “incomunicabilità
accertata”, dove – quando andava bene – si sentiva rispondere col classico
sgarbato “Dica ?….”.

E’ un processo in
corso in tutto il mondo. Tanto che si parla – con uno stupore farisaico – del
fiorire dei call center delle aziende Usa e del Regno Unito in India, grazie
alla confidenza degli operatori con la lingua inglese.  Si stima che in Italia, le persone occupate
nei call center siano 200mila. Mentre alcune aziende gestiscono in proprio
queste funzioni, molte altre, soprattutto se pubbliche, devono ricorrere a gare
regolari. Non è semplice, allora, per le ditte specializzate caricarsi di
organici fissi, quando il loro giro d’affari potrebbe ridursi da un momento
all’altro, in un contesto di competizione effettiva, fondata sul criterio del
minor costo.   Ecco perché la politica di
stabilizzazione del lavoro nei call center, se fosse portata avanti dal Governo
italiano con eccessiva disinvoltura, finirebbe per produrre una massiccia
delocalizzazione di quest’attività. Se i call center italiani non li hanno
ancora portati in Romania è perché la nostra lingua non lo parlano in modo
adeguato per sostenere un minimo di conversazione con gli utenti.

Chi sono i
dipendenti dei call center ? Il comparto è poco conosciuto e scarsamente
sindacalizzato. Allo stato dell’arte si utilizzano inchieste molto particolari,
quasi sempre viziate da pregiudizi ideologici, magari compiute all’interno
delle più grandi imprese erogatrici dei servizi. Basta vedere la scarsa
rappresentatività delle ricerche effettuate.

Un gruppo operativo del Prc è
stato protagonista di una di queste indagini. Sono stati intervistati, ad
esempio, 302 occupati, 239 donne e 63 uomini del call center Atesia di Roma
(del gruppo Cos). Dalle risposte emerge – si afferma – che è un falso mito
quello che vuole gli operatori di call center quasi tutti studenti universitari
che cercano di pagarsi le piccole spese o gli studi fuori casa. Infatti, solo
il 16,6% degli intervistati è impegnato in studi universitari mentre il 62% di
loro ha 30 e più anni, il 42,5% degli intervistati ha un’anzianità lavorativa
di almeno 4 anni e il 47,5% di 2 o 3 anni. Per l’80,7% degli intervistati si
tratta dell’unico lavoro svolto. Il 58% dei lavoratori intervistati, nonostante
lavori più di 30 ore settimanali, dichiara – si aggiunge – di non riuscire ad
essere indipendente economicamente: ciò a causa della retribuzione a cottimo,
delle giornate di non lavoro forzato e dei periodi di ferie e malattia. Gli
stessi intervistati ritengono, tuttavia, prioritari, rispetto allo stesso tema
della retribuzione, la sicurezza del posto di lavoro e il rispetto della
dignità del lavoratore. Il 28,7% ritiene che non ci sia la possibilità di
migliorare il rapporto di lavoro, solo il 13,5% ritiene utile lo sciopero, e
ancora meno, l’8%, quelli che credono di poter migliorare attraverso la
contrattazione individuale, il 5,2% dichiara che si dovrebbe fare pubblicità
negativa all’azienda mentre ben il 28,1% ritiene necessaria l’unità di tutti i
lavoratori dei call center (sia in outsourcing che no). Solo l’11% ha
partecipato ad un’assemblea sindacale mentre quelli che si sono rivolti al
sindacato, per qualsiasi motivo, sono il 42% degli intervistati.

La cosa più
clamorosa  – secondo gli attivisti
neocomunisti che hanno condotto l’indagine – è che solo il 53% degli
intervistati sa che Cgil-Cisl-Uil hanno siglato un accordo con il gruppo Cos,
mentre addirittura il 65,8% non ne conosce i termini. Si tratta di un accordo
che trasforma i vecchi contratti a progetto in parte in contratti di
apprendistato, in parte in contratti a termine o comunque a part-time e con
retribuzioni che non superano i 450-500 euro al mese. Quindi il sindacato è
presente nel settore, negozia come può le condizioni di lavoro. Solo che
l’avvio della stabilizzazione (attraverso l’assunzione a tempo indeterminato)
ha comportato l’applicazione di un nuovo regime contributivo più oneroso che si
è scaricato in termini negativi sul reddito netto dell’operatore. Del resto,
queste sono le regole vigenti in Italia: le persone dispongono soltanto di quei
diritti che sono capaci di conquistare e difendere.

I luoghi comuni

Ma se anche il campione individuato dagli attivisti di Rifondazione
fosse assolutamente rappresentativo di una realtà assai più ampia di qualche
centinaio di intervistati, resterebbe comunque senza risposta una
considerazione chiave: nessuno è obbligato a lavorare in un call center, dove
la retribuzione non può essere elevata (vista la natura delle mansioni svolte)
e la competizione (decisiva per restare sul mercato) è spietata e si basa
necessariamente sul contenimento dei costi, a partire da quello preminente del
lavoro. Mutatis mutandis, sembra di essere tornati indietro di quasi 40
anni, quando nelle linee di montaggio delle grandi fabbriche manifatturiere la
figura tipica era quella del lavoratore di terzo livello altrimenti detto
operaio-massa. La parcellizzazione delle mansioni apparteneva ad uno specifico
modo di produrre (ora si tratta soltanto di un retaggio d’archeologia
industriale), come adesso accade per l’organizzazione del front office
della società dei servizi. Nel nostro Paese, purtroppo, non siamo mai in grado
di anticipare i problemi e di trovare adeguate soluzioni in tempo. E’ evidente
che si sono formate sacche di precariato difficili da svuotare e che il popolo
dei call center s’iscrive in questa problematica. Ma non è più consentita una
rappresentazione della realtà in cui l’eccezione, seppure grave e consistente,
diventa la regola. Eppure, quando si ricorda che il tasso d’occupazione in
Italia non è mai stato da lungo tempo così elevato e che quello della
disoccupazione si è quasi dimezzato in pochi anni (un tasso inferiore al 6%
denota certamente, in un Paese caratterizzato da profondi divari, che in molte
aree siamo ben oltre il pieno impiego), si risponde che, in verità, è solo “cattiva occupazione”.

Anche l’Istat ci mette del suo continuando a
certificare – senza allegare un solo dato a conforto – che la disoccupazione
diminuisce perché la gente è talmente sfiduciata da non cercare neppure più
lavoro. E’ a questo punto che di solito comincia la mistica del precariato con
la medesima litania fastidiosa ed insistente che abbiamo conosciuto, quando, nella
passata legislatura, iniziò la campagna per l’impoverimento dei ceti medi,
seguita a ruota da quella sulla “quarta settimana”, quando le famiglie
non avevano più soldi per comprare il latte ai loro bambini. Intanto, ad ogni
week end le autostrade scoppiavano di traffico e, sotto i nostri occhi, aveva
luogo la più massiccia operazione di compravendita immobiliare della storia
recente.

E che dire dei pensionati ? Li vanno a cercare nelle bocciofile e si
fanno raccontare, senza mettere in dubbio una sola parola, storie incredibili
di vita vissuta che sembrano dei corsi di sopravvivenza, mentre basterebbe,
almeno una volta, mandare una troupe televisiva sulla Eugenio C. in crociera
nel Mar Egeo o nei Caraibi per filmare i pensionati veri.

Un’indagine dell’Ires-Cgil

Un contributo di chiarimento è persino venuto, in
partibus infidelium
, dall’Ires (il centro studi della Cgil), il quale ha
dedicato un intero fascicolo (il n. 1 del 2007) della rivista Quaderni di
Rassegna sindacale all’”Italia del lavoro”, tirando le somme di
un’inchiesta che ha fotografato “la realtà produttiva e i lavoratori
dipendenti in alcune regioni” del Paese.

L’indagine ha coinvolto un campione
di 6.015 dipendenti e lavoratori con contratti atipici (collaborazioni a
progetto, occasionali, in somministrazione) ai quali è stata proposta la
compilazione di un questionario strutturato, con una parziale integrazione di
1.200 interviste telefoniche. Il campione è stato organizzato per ripartizioni
territoriali ed attività economica prevalente.

Dall’indagine – ritenuta
dall’Ires “ampiamente rappresentativa del lavoro dipendente italiano
allargato ai rapporti non standard e atipici” – rappresenta una realtà in
cui è cresciuta l’occupazione femminile, dove è ancora rilevante il peso delle
categorie operaie, mentre è in aumento il livello di scolarizzazione,
soprattutto nella pubblica amministrazione. Benché tale situazione sia sempre
più segmentata in termini contrattuali, l’Ires ammette che “una decisa
maggioranza” del campione, pari al 74%, ha un “rapporto di lavoro
standard”. Interessante è notare la ripartizione dei lavoratori con “rapporto non standard”: si tratta nel 12,1% dei casi di contratti a
termine o stagionali; nel 5,2% di co.co.co., co.co.pro., partite Iva. Il 2% è
costituito da lavoratori interinali e da contrattisti di somministrazione;
circa l’1,8% è privo di contratto, mentre il restante 4,3% si suddivide tra
apprendisti, cfl, lavoratori in inserimento, collaboratori occasionali, soci
lavoratori di cooperative, lavoranti a domicilio.

La composizione del mercato
del lavoro, che emerge dall’indagine Ires, presenta, dunque, caratteristiche
assolutamente fisiologiche, se solo si tiene conto del fatto che il lavoro
stagionale (e quindi il ricorso ai contratti a termine) è in larga misura
un’attività peculiare dell’organizzazione del lavoro di specifici settori di
attività (agricoltura, turismo, costruzioni, ecc.).

Le formule contrattuali,
definite instabili dall’indagine, si concentrano “contestualmente ai livelli
più elevati e più bassi delle categorie professionali”: i rapporti di lavoro
non standard, infatti, sono diffusi in misura del 60,1%

Il 67 per cento circa dei lavoratori in età compresa tra i 15 e i
24 anni e il 37,4% di quelli tra i 25 e i 34 anni hanno un lavoro non standard.
Ma dai dati scaturisce, pure, un’altra verità: e cioè che la condizione di “precarietà” non dura in eterno, ma sussiste in un periodo iniziale della
vita lavorativa, che, nella generalità dei casi, tende a concludersi con la
stabilizzazione (il che – lo ha chiarito da tempo AlmaLaurea – non significa
necessariamente assunzione a tempo indeterminato). Occorre considerare,
altresì, che sono in diminuzione i lavoratori che accedono al mercato del
lavoro nella prima classe di età, quando i percorsi formativi non sono ancora
conclusi. Già nella fascia successiva (24-34 anni) il rapporto tra lavori
standard e non standard si invertono completamente con evidente vantaggio dei
primi (che raddoppiano, mente la percentuale dei secondi si dimezza). E non è
una buona politica quella di insistere su di una sorta di “precarietà
percepita” che induce i giovani ad autocompatirsi, insieme alle loro
famiglie.

L’etica della responsabilità e il lavoro rifiutato

In sostanza, dobbiamo chiederci se non stiamo
creando una generazione di irresponsabili, che trova più semplice prendersela
col mondo piuttosto che interrogarsi sulle ragioni della propria ritardata o
mancata affermazione nel lavoro e nella vita.

Certo, non è colpa loro se la
scuola e l’Università non sono all’altezza dei loro compiti formativi, se non
esistono strutture d’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro e di
orientamento professionale. E non è loro responsabilità se sulle giovani
generazioni è precipitata tutta la flessibilità di cui ha bisogno il sistema
economico per non grippare.

Per cambiare le cose, però, occorre individuare
lucidamente i nodi da sciogliere e gli interessi da sconfiggere. Nessuno si
pone la domanda che rese celebre John F. Kennedy: cosa posso fare io per il mio
Paese o almeno che cosa posso fare io per me stesso. In uno dei tanti libri
disonesti che sfruttano il malessere di questi giovani, vi è uno scambio di
lettere che fotografa con efficacia la situazione.

A quanti sbandierano una
laurea o un diploma lamentando di guadagnare solo pochi euro all’ora nei call
center, un altro giovane risponde dicendo che lui di euro ne guadagna 45
facendo l’idraulico (senza essere polacco).

Nessuno, tra le tante ricerche di
cattiva sociologia, si dà cura di andare alla scoperta del (tanto) lavoro
rifiutato. Infermieri, saldatori, falegnami e tante altre figure sempre più
difficili da reperire e formare. Interi settori (edilizia, turismo, servizi
alla persona, ecc.) vanno avanti, ormai, grazie al solo lavoro degli immigrati.

Nell’industria entrano soltanto i giovani che non ne possono fare a meno. Gran
parte del lavoro manuale viene rifiutato dai nostri figli “precari
immaginari”, ancorché si tratti di una prospettiva di occupazione stabile.
Sono certamente storture e 
contraddizioni che chiamano in causa molti limiti dell’azienda Italia.
Ma esistono anche delle responsabilità che ognuno deve assumersi in proprio,
senza autoassolversi continuamente.

Non basta più rivendicare una stabilità
chimerica e pretendere che siano garantite in partenza condizioni di vita che
non sono un diritto, ma una dolorosa e difficile conquista. E che forse non
sono più sostenibili. In Italia, vi è la convinzione che la sciagurata
spensieratezza degli anni Settanta fosse la normalità. Invece era soltanto la via
crucis
del declino. E’ bene prenderne atto, ora, nel momento in cui siamo
entrati nel quarantesimo anniversario del ’68.