A Berlino Obama blandisce l’Europa e mostra i muscoli sul terrorismo

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A Berlino Obama blandisce l’Europa e mostra i muscoli sul terrorismo

25 Luglio 2008

Con il discorso alla Siegessaule, il candidato alla Casa Bianca si è giocato un bel jackpot elettorale. Da una parte ha blandito gli europei, parlando di un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, dall’altra ha chiesto agli alleati della Nato uno sforzo in più per vincere in Afghanistan e rifondare il Medio Oriente.

La Siegessaule è uno dei monumenti simbolo di Berlino. Una lunga colonna affusolata di arenaria che poggia su una base di granito rosso e lucido ed è sovrastata dalla statua dorea della Vittoria Alata. Chi è amante delle storia militare ricorda che fu innalzata per commemorare le vittorie della Prussia alla fine del XIX secolo. Hitler ordinò a Speer di trasferirla nel centro della capitale tedesca, dove si trova ancora oggi. E’ una meta obbligata dei turisti ma anche il punto di ritrovo per attivisti e militanti che ogni anno partecipano al Gay Pride. E per tutti quelli che amano il cinema monocromatico di Wenders: da lassù, gli angeli guardano le miserie e la grandezza dell’umanità. 

Barack Obama ha scelto la Siegessaule come location per il discorso ai berlinesi, prima tappa del viaggio che lo sta portando in giro per le principali capitali europee. Non è stata una decisione facile. All’inizio gli ingegneri elettorali che hanno trasformato la campagna di Obama in un moloch hollywoodiano avevano pensato a un luogo ancora più straordinariamente carico di memoria: la Porta di Brandeburgo, dove il presidente Kennedy disse agli abitanti della capitale, appena divisa in due dal Muro, “siamo tutti Berlinesi”. E dove, molti anni dopo, il presidente Reagan chiese a un Gorbaciov ormai stremato: “Mr. Gorbaciov, faccia cadere questo muro!”. 

Ma la cancelliera Angela Merkel non ha gradito molto di avere un nuovo Reagan alla Porta di Brandeburgo (negli ultimi giorni Obama ha citato più volte e con ammirazione il campione della destra repubblicana), spiegando ufficiosamente che non sarebbe stato conveniente, per il candidato, parlare in un luogo così simbolico; potrà farlo, se mai, quando diventerà presidente, se mai lo diventerà. Non adesso perché sarebbe stato uno sgarbo verso il suo concorrente, quel McCain che l’opinione pubblica europea continua boriosamente a sottovalutare – influenzata dai media – e che invece i governi della Comunità sanno bene di potersi ritrovare da un giorno all’altro alla Casa Bianca. Così la Merkel ha fatto un piccolo sgambetto allo staff di Obama, che si era illuso di aver già messo in saccoccia un altro spottone elettorale. 

La scelta è caduta sulla “Colonna della Vittoria”. Un messaggio chiaro e rivolto ai tanti supporter di Obama sparsi in Europa. Venceremos. In Germania, il 67% del pubblico preferisce Obama, e le stesse percentuali bulgare si registrano anche a Londra e a Parigi. Ai tedeschi Obama è piaciuto perché è cool, perché ha vissuto fuori dagli Usa – non viene dal Texas e non somiglia a un cowboy (anche se di recente si è calato lo Stetson): “Mia madre è nata nel cuore dell’America – ha ricordato Obama – ma mio padre è cresciuto in Kenya. Mio nonno era un cuoco, un servitore domestico degli inglesi”.  Il candidato democratico è piaciuto anche perché ha parlato di cooperazione, dopo anni di maldipancia tra gli Usa e l’Europa, e di ambiente, un altro tema caro ai tedeschi: “E’ arrivato il momento di lavorare insieme per salvare il pianeta”. 

In realtà, fino adesso Obama non si era sprecato più di tanto: l’Europa non è stata certo uno degli argomenti chiave della sua campagna, ma tant’è, il viaggio in Europa è servito proprio a questo: mostrare che Obama è amico della “Comunità Europea”, non come ‘McBush’, il repubblicano che pensa ancora di poter fare tutto da solo. Negli ultimi giorni il premier inglese Brown ha promesso di ritirare i soldati inglesi dall’Iraq, ha condannato Israele per gli insediamenti nei Territori e chiesto un nuovo piano di aiuti per Gaza. Ecco un perfetto allineamento della Gran Bretagna alla futura America obamiana. 

Ma se i democratici, i verdi e i pacifisti, i socialisti e i democristiani europei, credevano che Obama si limitasse alle solite enunciazioni sulla pace nel mondo e sull’importanza delle relazioni transatlantiche, mettendo in secondo piano la Guerra al Terrore, e più in generale il discorso sulla esportazione della libertà, si sono sbagliati di grosso. In questi ultimi mesi di campagna elettorale, il candidato democratico sta mostrando i muscoli: ieri Obama ha confermato che lo sforzo bellico degli Usa si concentrerà sul fronte afgano, per sradicare le basi di Al Quaeda e dei Taliban dal confine pakistano. 

“La Caduta del muro di Berlino aveva aperto nuove speranze. Ma questa nuova e grande vicinanza ha dato vita anche a nuovi pericoli – pericoli che non possono essere contenuti dai confini tradizionali delle nazioni o dalla distanza dell’Oceano. I terroristi dell’11 Settembre hanno preparato i loro piani ad Amburgo, si sono addestrati a Kandahar e a Karachi prima di uccidere migliaia di persone di tutto il mondo sul suolo americano”.  E dunque: “E’ venuto il momento in cui dobbiamo sconfiggere il Terrore e prosciugare i pozzi dell’estremismo che lo sostengono. Questa è una minaccia reale e non possiamo esimerci dalla nostra responsabilità di combatterla”. 

“Se creammo la Nato per opporci all’Unione Sovietica, possiamo sperare in una nuova partnership globale per smantellare i network che hanno colpito a Madrid e ad Amman, a Londra e  Bali, a Washington e New York. Se siamo riusciti a vincere la battaglia delle idee contro i comunisti, possiamo stare dalla parte di quella grande maggioranza del mondo musulmano che rigetta quelle forze estremiste che istruiscono all’odio invece che alla speranza”. 

Non è finita qui: “E’ arrivato il momento in cui dobbiamo aiutare a dare una risposta per una nuova alba in Medio Oriente. La mia nazione deve agire d’intesa con la vostra e con l’Europa per mandare un messaggio diretto all’Iran affinché abbandoni le sue ambizioni nucleari.  Dobbiamo sostenere i libanesi che hanno marciato e si stanno battendo per la democrazia, e gli israeliani e i palestinesi che sono in cerca di una pace sicura e duratura. E a dispetto delle differenze del passato, è arrivato il momento in cui il mondo dovrà aiutare i milioni di iracheni che stanno cercando di ricostruire le loro vite, prima di lasciare questa responsabilità al governo iracheno e mettere la parola fine anche a questa guerra”.

Che non vuol dire ritirarsi in fretta e furia, ma gradualmente, prima dalle zone in cui gli Usa sono più forti e poi da quelle dove si continua a combattere. Ma non c’è solo il Medio Oriente: “Ci batteremo per i diritti umani dei dissidenti in Birmania, dei blogger iraniani, degli elettori dello Zimbabwe? Capiremo cosa significa ‘mai più’ in Darfur?”. Forse tra Obama e McCain in politica estera ci sono soltanto delle divergenze tattiche, non strategiche. 

Molti europei credono che Obama sia un nuovo John F. Kennedy ma, nello stesso tempo, non sanno o non ricordano quale fu la politica estera del presidente Kennedy. Certamente non una trionfale marcia pacifista. Quando nel 1963 Kennedy parlò alla folla che si era riunita davanti alla City Hall di Berlino Ovest il suo discorso fu un appello determinato alla lotta contro il Comunismo. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta i sovietici avevano prima schiacciato il dissenso in Germania Est e in Ungheria e poi si erano alleati con Castro minacciando gli Usa nel “cortile di casa”. Nel 1961 avevano alzato, in una sola notte, il Muro di Berlino. 

Kennedy si rivolse a “tutti quelli che nel mondo non capiscono, o dicono di non capire, qual è la grande questione tra il mondo libero e il mondo comunista”. Se la prese con “chi in Europa e altrove sostiene che possiamo dialogare con i comunisti”. Il presidente credeva che la libertà fosse un bene indivisibile, “quando un uomo è sottomesso siamo tutti prigionieri”. Ma soprattutto vide un giorno in cui il Muro sarebbe caduto e la Germania sarebbe stata riunificata. “Quando quel giorno arriverà, e arriverà, i cittadini di Berlino Est si prenderanno la giusta rivincita per essere stati in prima linea al fronte per vent’anni”. Questo significa essere dei politici visionari. 

Ecco perché ieri il governo e i politici tedeschi erano sulle spine. E non avevano tutti i torti. Obama ha ricordato agli europei che c’è ancora una missione da compiere. Che anche oggi c’è un fronte di guerra aperto, quello contro il terrorismo e il jihadismo. “Non sappiamo se il jihadismo si rivelerà un avversario più o meno formidabile del comunismo”, ha scritto William Kristol in un editoriale apparso sul New York Times di qualche giorno fa. “Ma in fin dei conti Obama può parlare di qualcosa che Kennedy non visse abbastanza a lungo per vedere: a un quarto di secolo di distanza dal discorso alla City Hall, dopo tante controversie, a dispetto di tanti errori, e grazie a un considerevole sacrificio, il mondo delle libertà può prendersi la giusta soddisfazione di una vittoria memorabile”. 

Kristol esagera? L’islamismo è davvero in rotta? Per i politici tedeschi le cose non stanno esattamente in questo modo, per cui hanno prima boicottato il discorso alla Porta di Brandeburgo e poi criticato la scelta della Siegessaule. La Germania, più di altri alleati, non gradisce l’estensione e l’intensificarsi dello scontro in Afghanistan. Chissà cos’ha pensato la Merkel quando Obama ha detto: “Il popolo afgano ha bisogno delle nostre e delle vostre truppe; del nostro e del vostro sostegno per sconfiggere i Taliban e Al Quaeda, per sviluppare la propria economia, e per ricostruire la propria nazione. Abbiamo in gioco fin troppi interessi per tornare indietro adesso”.  

Dopo il discorso di ieri, da un punto di vista strettamente elettorale, Obama rischia qualcosa, perlomeno in patria? “A un elettore del Nord Dakota non interessa granché delle relazioni transatlantiche”, è stato l’acido commento della rivista Politico, “quello che si chiede è: ‘Cosa sta preparando Obama per me?”. Ma ricordando gli uomini e le donne che si sono sacrificati in America a in Europa, e gli altri milioni di arabi, iracheni e afgani, che combattono insieme all’Occidente contro il terrorismo e il fondamentalismo islamico, Obama è riuscito a sfruttare l’onda lunga del mito kennediano. 

Certo, l’elettore del Nord Dakota continuerà comunque a domandarsi e va bene, sconfiggiamo Al Quaeda, ma “tu cosa farai per me?”. A questa domanda gli esperti di marketing elettorale del candidato democratico non hanno ancora risposto. E in effetti, anche il giudizio sulla politica interna del presidente Kennedy non ha mai convinto al cento per cento gli storici. Ma questa è un’altra storia.