A Bruxelles la Merkel reitera il ‘no’ agli eurobond. L’impasse sulla Grecia

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A Bruxelles la Merkel reitera il ‘no’ agli eurobond. L’impasse sulla Grecia

24 Maggio 2012

Dopo settimane d’indiscrezioni, arriva finalmente la conferma pubblica: i governi europei lavorano a piani di contingenza nel caso in cui la Grecia esca dalla zona euro. Ad occuparsi del coordinamento tra i vari paesi dell’Unione monetaria europea è il Eurogroup working group (che nome!), un gruppo, appunto, di tecnocrati incaricati di preparare i vari incontri dei ministri delle finanze dell’Unione europea.

Nel frattempo, ieri sera i capi di Stato e di governo del Consiglio europeo si sono nuovamente incontrati a Bruxelles. Cena informale, questa la dizione ufficiale. La Merkel ha tenuto la barra dritta, confermando in pre-diner la contrarietà del governo tedesco alla creazione di eurobond come vorrebbe il presidente francese, François Hollande. Secondo il ‘Wall Street Journal’ al convivio di ieri, sarebbe anche nato un nuovo mostro intraeuropeo, il Merktusk, nuova crasi tra il nome della cancelliera Angela Merkel e quello del primo ministro Donald Tusk.

Una sponda, quella polacca, che la Germania potrebbe utilizzare per impedire che proprio la Francia assieme all’Italia del premier tecnocrate Mario Monti e all’inguaiata (sul fronte bancario) Spagna del premier Popolare Mariano Rajoy, formino quello che Ambrose Evans-Pretchard sul ‘Telegraph’ ha definito un ‘blocco latino’. Perciò la cancelliera avrebbe deciso di muoversi in geometria variabile, guardando verso Varsavia, per tentare di contenere le spinte all’europeizzazione – si scrive “germanizzazione” – dei tanto in voga ‘piani per la crescita’.

In fondo – che si tratti di eurobond, di project bond e finanche dell’esclusione della voce ‘investimenti’ dal bilancio pubblico dei paesi Ue soggetti al quasi defunto ‘fiscal compact’- , tutta la discussione sulla crescita ruota attorno alla solita grande questua: i tedeschi mettano più soldi per stimolare la crescita. Il problema però è che di soldi Berlino ne ha piazzati già molti.

Da quando la crisi fiscale dell’Eurozona ha avuto inizio, infatti, il sistema delle banche centrali europee ha sborsato circa 800 mld di euro, di cui più di 600 cadono sul bilancio della Bundesbank, la banca centrale tedesca. Una cifra questa che in parte è compensata da quel 170 mld di euro in più che la Bundesbank avrebbe stampato al netto della propria quota parte di conio in seno alla Bce. In un certo senso, il fiscal compact storicamente è solo il tracciamento della linea oltre la quale la Germania di Angela Merkel non è più disposta ad andare.

Ora, se è vero che il governo tedesco ha dato prova di una certa rigidità politica e di una certa mancanza di convinzione europeista (come dar torto ai tedeschi), il dato è che, per metterla come l’ha messa ieri Guido Tabellini in un suo editoriale su Il Sole 24 Ore, la gestione della crisi fiscale dell’Eurozona dell’ultimo anno ha condotto “alla ri-nazionalizzazione del sistema finanziario europeo”. Secondo l’economista e rettore dell’università Bocconi di Milano, tale fenomeno diminuerebbe nel medio-periodo il costo di uno smontamento della moneta unica europea.

E’ innegabile che tale gestione intergovernativa – l’unica praticabile visto che gli eurocrati del pilastro comunitario come noto, a parte i rappresentanti del PE, non sono eletti – abbia spinto verso una ri-nazionalizzazione delle politiche d’aiuto alle banche operanti nei vari paesi dell’eurozona, molto esposte sui debiti sovrani dei paesi a più alto rischio insolvenza. In fondo è facile il procedimento: a chi si sono rivolti gli istituti di credito d’Europa per ottenere i LTRO, i prestiti a tre anni a tasso agevolato che la Bce ha concesso proprio alle banche europee? Niente meno che ai governi.

A loro volta (alcuni di) questi governi hanno “ottenuto” – l’Eurotower è indipendente certo, ma non del tutto impermeabile alla politica, si dica – che la Bce di Mario Draghi concedesse prestiti alle banche in funzione anti-ciclica, in particolare per impedire un ennesimo congelamento creditizio. Con quei soldi, concessi nel Dicembre 2011 e nel Febbraio 2012, le banche hanno ricapitalizzato anche in ossequio alle intempestive disposizioni dell’Autorità bancaria europea, l’Eba.  In cambio i banchieri hanno accettato che i governi chiedessero loro di ri-finanziare il debito pubblico. E addio credito alle imprese in funzione anti-ciclica.

In sostanza, secondo il ragionamento di Guido Tabellini, la ri-nazionalizzazione del sistema finanziario europeo sarebbe avvenuta per il prevalere degli interessi nazionali (in primis tedeschi) e dunque per la mancanza di una politica europea organica che facesse fronte alla crisi fiscale europea con risposte veramente europee (Tabellini come tanti altri oggi chiama in causa la Bce per risolvere i guai, ma questa è un’altra storia).

Ora, questa lettura è convincente solo fino a un certo punto. Se è vero che è mancata una politica europea di largo respiro, in Europa (ma anche in America da qualche anno a questa parte) manca anche la predisposizione a far fallire le imprese, banche incluse. Certo il fallimento degli istituti di credito è un processo doloroso, soprattutto per le ricadute sociali e per il rischio del contagio interbancario in mercati fortemente integrati come quelli euro-statunitensi. 

Ma a conti fatti, forse sarebbe meglio accettare il fallimento di qualche banca europea piuttosto che trasformare lentamente il nostro sistema economico in un ircocervo sempre più statalista e sempre meno privato, con osmosi perniciose tra affari, banche e politica, sia essa nazionale o eurocratica.