A chi piace e a chi no il Trump muscolare
09 Aprile 2017
di Daniela Coli
La raffica di missili Tomahawk sulla base russo-siriana di Shayrat, già in funzione a meno di 24 ore dal raid americano, segna la fine dell’era Obama. La sventagliata di missili è piaciuta molto a Roger Cohen, editorialista di punta del New York Times, che proprio il giorno prima aveva twittato: “Putin, Sisi, Bashar al-Assad (autore di infami attacchi chimici): c’è un autocrate nel mondo che Trump non ammira?”.
A differenza di Obama, sempre indeciso, Trump è partito a razzo alla notizia dell’attacco chimico su Iblid ed è diventato per un giorno il cocco dei democratici. Il Trump muscolare è piaciuto agli americani democratici e repubblicani, perché con lo “show”, come lo chiama il Times di Londra, ha fatto sentire di nuovo grande l’America. Infischiandosene dell’Onu e della Nato, The Donald che parte in quarta, decide il raid e lo comunica a cena al presidente cinese Xi, rappresenta appunto la fine dell’era Obama e anche dell’ordine internazionale post-1945, e piace agli americani perché li fa sentire ancora grandi ed eccezionali. Così anche il New York Times è diventato un po’ trumpista.
Dietro l’attacco a Shayrat c’è il rapporto con la Russia di cui Trump voleva essere amico, ma i democratici lo hanno accusato di essere il burattino di Putin e il povero Flynn ha dovuto dimettersi da consigliere per la sicurezza nazionale. Allora, meglio ritirare fuori la guerra fredda 2.0, litigare, minacciare sfracelli, niente assicura più la pace della paura di un conflitto nucleare. Niall Ferguson aveva consigliato a Trump di fare il Dottor Jekyll e Mister Hyde e alla fine The Donald l’ha fatto. Pur sostenendo l’alleato speciale, i parlamentari britannici hanno chiesto a Theresa May di non precipitarsi in un nuovo conflitto. Il padre della Brexit, Farage, ha protestato contro il raid dell’amico Trump mentre Boris Johnson ha messo in guardia contro una guerra in Siria, la priorità assoluta devono essere i colloqui di pace. Insomma, prima di rifare una guerra con gli americani, i britannici ci penseranno bene.
Per Patrick Cockburn, come per il nostro Alberto Negri, dopo la batoste di Afghanistan, Iraq e Libia, è improbabile che Trump si cacci in una nuova guerra. Per Cockburn, come per Negri, l’attacco di Trump ha soprattutto motivazioni di politica interna. E anche da noi abbiamo visto come chi andava a fare comizi per Hillary e dava del puzzone a Trump, i democratici, i clintoniani, quelli delle “primavere arabe” – dalla Libia alla Siria – lanciarsi ad applaudire Trump per rifarsi la faccia, evviva!, l’America è tornata, non poteva lasciarci senza ombrello. I “brexiter” invece non hanno di questi problemi e dicono chiaro e tondo che i cinesi non vogliono la fine di Assad, perché la Cina dentro di sé ha regioni islamiche, come la Russia, e Mosca e Pechino temono infiltrazioni jihadiste. Così come gli indiani non dimenticano Mumbai.
L’Europa è flagellata da attacchi quasi quotidiani, come a Istanbul e a Beirut. Per i brexiter, Trump ha messo fine all’era Obama, ma il problema è l’immigrazione incontrollata, il “mundus furiosus” della globalizzazione, e, quindi, Trump si occupi di questi temi e tagli la testa a Isis. In fondo, fu Obama – ricorda Cockburn – a dare l’ok a Putin per l’intervento in Siria. Obama non voleva metterci le mani, perché l’America non ha davvero bisogno di un altro Iraq. L’attacco di Trump chiude col buonismo obamiano, con le frontiere aperte a tutti, anche se il Regno Unito adesso pensa al Commonwealth, non alla guerra in Siria.
L’eccezionalismo americano, convinto di dovere esportare dovunque la democrazia e il proprio stile di vita, ha creato guai, è diventato antipatico a molti in Asia, Africa, per non dire in Medio Oriente. Paradossalmente asiatici, africani, arabi si trovano più a proprio agio con i pragmatici britannici, che pensano soprattutto a ospitare magnati cinesi nelle splendide tenute da caccia scozzesi. Certo Boris Johnson non va a Mosca dopo lo “strike” di Trump, ma come abbiamo detto invita a una soluzione politica sulla Siria. Gli inglesi non hanno problemi di deficit e di crisi politica perenne come noi e possono permettersi il lusso di criticare l’alleato speciale. E forse gli stanno facendo anche un grande favore.
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