A Cleveland i fedeli vanno a messa con il vestito buono della domenica
21 Luglio 2011
Entrando nella Elizabeth Baptist Church di Cleveland, congregazione battista composta esclusivamente da afro-americani, balzano subito all’occhio la batteria, la chitarra, il sax e le due tastiere pronte ai lati dell’altare, mentre tre microfoni sono posizionati di fronte alla prima fila di panche. Immediato il pensiero alla scena dei Blues Brothers in cui uno scatenato James Brown vestiva i panni di un pastore che predicava a suon di rythm&blues. I duecento fedeli arrivano alla spicciolata, in una tiepida domenica d’estate. Uomini in giacca e cravatta, occhiali e capelli brizzolati, pieni di dignità e calma. Donne, o meglio matrone, vestite con colori sgargianti o pastello, con cappelli e guanti. La comunità non è ricca, e il quartiere in cui si trova la chiesa è messo male, ma alla messa della domenica ognuno indossa il vestito migliore. Solo ad alcuni dei bambini è permesso di stare in t-shirt. Mentre le persone ancora si siedono fino a riempire di vita la navata semplice e frugale, la band inizia a suonare, e i cori maschile e femminile intonano i primi gospel. Le persone tengono il ritmo battendo le mani, cantano insieme, salutano con “Alleluia” le invocazioni al Signore, alcuni si alzano in piedi presi dal canto. Dal coro si stacca una donna la cui voce non ha nulla da invidiare ad Aretha Franklin, e parte un assolo malinconico e appassionato. La raggiungono poi bambine e ragazze vestite di bianco, che passano ballando nel mezzo della navata. Il rituale ovviamente non è solo musica.
Il pastore Richard, che è anche avvocato e padre di tre figli, chiama all’altare i membri della comunità per leggere passi della Bibbia. Poi con la sua voce profonda inizia a parlare ai fedeli, un po’ dal pulpito un po’ camminando tra le panche, microfono in mano mentre il pianista sottolinea con la musica l’andamento del discorso. Uno spettacolo insolito per chi in Europa è abituato a messe più sobrie e solenni, e per i non credenti. Quando alla fine del discorso Richard ritorna al pulpito, inizia a leggere le pagelle di alcuni bambini della congregazione. L’anno scolastico è finito da poco, e i voti conseguiti da James, Rachel e Debbie sono molto buoni. Per questo vengono ringraziati, applauditi e celebrati come esempio per la comunità, per gli altri bambini nati in un quartiere dove per gli adolescenti è più facile finire in prigione che al college.
In una società individualista e mobile come quella americana, in cui i figli vanno via di casa appena finita l’high school, le persone cambiano spesso quartiere, città e stato, e il flusso di immigrati è continuo, le varie congregazioni religiose rappresentano in un certo senso un’ancora, una comunità, specie per chi ha meno mezzi economici per cavarsela da solo. E questo vale in una certa misura anche per i cattolici, irlandesi o polacchi, italiani e sempre più latinoamericani, e per le altre fedi religiose. In questo universo di chiese – nella stessa strada della Elizabeth Baptist Church se ne contano almeno altre otto a sé stanti – si trovano anche le sette che alienano gli individui dalla società, i santoni fasulli che manipolano la buona fede in cerca di denaro, e i fanatici estremisti come il pastore protestante che ha voluto bruciare pubblicamente una copia del Corano in chiesa. Ma nella maggior parte dei casi le chiese sono l’eredità e il sano frutto di quella libertà di culto che, secoli fa, i fuggitivi da una Europa intollerante e piagata da guerre di religione cercavano in America. Storia antica, ma anche recente. Quando il pastore Richard chiama all’altare alcuni ospiti europei per presentarsi alla comunità, Alexe da Bucarest, 36 anni, ricorda le chiese chiuse e sbarrate che vedeva da piccolo durante il regime comunista, e come solo negli anni ’90 la sua comunità abbia ritrovato la libertà religiosa. Libertà di fede e senso di appartenenza a una comunità che riecheggiano ancora una volta nel gospel gioioso che chiude la messa. Alleluia.