A palazzo Chigi un governo “putiniano”

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

A palazzo Chigi un governo “putiniano”

04 Giugno 2007

Il governo Prodi dopo un anno e qualche giorno ha già il volto sfigurato di un vecchio. Si era insediato sull’onda di una microscopica vittoria elettorale che aveva il sapore di una sonora sconfitta politica. La piccola dote di 25.000 voti di vantaggio è stata sperperata rapidamente e poi si è anche eroso il capitale proprio della coalizione. Fino a oggi, quando Mannheimer ci dice che ad essere insoddisfatti del governo sono 2 elettori su 3.

All’indomani del voto Romano Prodi voltò le spalle sdegnato all’offerta berlusconiana di creare un esecutivo frutto di un’intesa bipartisan, sostenendo che il suo governo avrebbe “fatto da solo”. Dopo un anno il bilancio politico di questo “far da solo” è catastrofico. Ma non è tanto questo a preoccupare, quanto piuttosto il profilo istituzionale a cui questo esecutivo sembra ispirarsi.

Da un punto di vista macroscopico il panorama è già desolante. Il Senato è stato de facto abolito dall’ordinamento repubblicano a causa dell’inconsistenza dei numeri, aggravata dalla cagionevole salute dei senatori a vita. Alla Camera dei Deputati, il presidente Bertinotti richiama con uno violento trillo di campanello “la scarsa dimestichezza” di Prodi con le aule parlamentari e accusa il governo di aver “strangolato il dibattito” a forza di decreti legge. Persino il Quirinale ha avuto un fremito di sdegno quando Prodi, con una circolare, ha suggerito ai suoi ministri di eludere il Parlamento e di arrangiarsi con i regolamenti. Il tenore democratico che si ricava da questo quadro è sorprendente, se solo si pensa che il centro sinistra chiedeva di essere mandato al governo contro una supposta “sospensione democratica” derivante dal conflitto di interessi berlusconiano.

Ma è guardando nel dettaglio dell’azione istituzionale di questo governo che si ricavano le indicazioni più inquietanti. Partiamo dal caso Visco e muoviamoci a ritroso. Non è il caso qui di soffermarsi sulla vicenda giudiziaria che investe il vice ministro delle Finanze: la magistratura a un certo punto dirà la sua e se ne discuterà. La questione è altra e incontrovertibile: davanti alla possibilità di un voto del Senato, dove settori della maggioranza si preparavano a votare contro il governo decretandone una seconda e probabilmente definitiva crisi, si è scelto di schivare quel voto con modalità senza precedenti. Prodi ha preso il generale Speciale, all’origine delle accuse contro Visco, e d’imperio lo ha rimosso dal suo incarico. Nello stesso momento ha “temporaneamente” sospeso le deleghe di Visco sulla guardia di Finanza, disinnescando così la minaccia del voto del Senato. Oggi sappiamo che Speciale ha rifiutato il posto alla Corte dei Conti che gli avevano proposto come riparazione.

Già da sola questa vicenda mostra un utilizzo talmente spregiudicato del potere da lasciare senza parole. Ma essa ha un corollario che rafforza il procedimento autoritario appena descritto. L’ex direttore dell’Ansa, Pierluigi Magnaschi ha raccontato a Il Giornale il retroscena del suo improvviso licenziamento nel novembre del 2006: “Venni fatto fuori per aver diffuso la notizia sull’azzeramento dei vertici della Gdf in relazione alla vicenda Unipol”. Magnaschi è uno stimato professionista, inventore di giornali di successo, direttore di illustri testate economiche e infine alla guida dell’Ansa per più di sei anni con indiscusso esito positivo. Non è un propagandista o un agitatore politico e se racconta di essere stato licenziato per una notizia sgradita al governo, vale la pena credergli. Allora, per difendere Visco le vittime sono già due: il generale comandante della Guardia di Finanza, Roberto Speciale, e il direttore della principale agenzia di stampa italiana, Pierluigi Magnaschi. Le loro teste imbalsamate nel salone dei trofei di palazzo Chigi fanno certamente la loro figura.

Ma non è finita, in quella sala, almeno virtualmente, potrebbe trovare posto anche la testa del giudice costituzionale Romano Vaccarella, dimessosi dal suo incarico a causa delle pressioni esercitate sulla Corte dal governo per il referendum elettorale. In quell’occasione alcuni ministri si dissero  certi che la Consulta sarebbe stata “disponibile” a seguire i suggerimenti del governo in tema di ammissibilità del referendum. Davanti a quelle affermazioni, accolte dall’indifferenza dell’esecutivo, Vaccarella decise che non meritava restare in una istituzione di garanzia così platealmente bistrattata. La vicenda è già quasi dimenticata, Corte procede sulla sua incerta strada e Vaccarella non è un trofeo solo perché si è dimesso per tempo.

Nella sala dei trofei c’è anche un posto vuoto con sotto  la targhetta col nome della vittima: Angelo Maria Petroni, consigliere di amministrazione della Rai che il ministro Padoa-Schioppa ha tentato di destituire. Petroni sin’ora è riuscito a schivare i colpi ma il governo è ancora sulle sue tracce. La sua colpa è di non appartenere alla maggioranza di governo, poiché altre non sono mai state menzionate. Per cacciarlo però occorrerebbe dimostrare che il suo lavoro è andato contro gli interessi dell’azionista che rappresenta, cioè il ministero del Tesoro che, seppure nella precedente legislatura lo ha nominato. Ma ovviamente questo è indimostrabile e Petroni resiste al suo posto.

C’è anche una vittima più immateriale tra i trofei di questo governo e sono le autorità di garanzia: espropriate dei loro poteri, indebolite, manovrate a piacimento. Non c’è solo il caso Sircana sullo sfondo, per il quale il governo ottenne un provvedimento ad personam dall’Autorità per la Privacy. Ma, come ha raccontato su l’Occidentale, Galeazzo Vendramin (Governo Prodi, le mani sulle Autorità), il tentativo di controllare le autorità indipendenti è più vasto e metodico.

C’è un filo conduttore che lega queste vicende a prima vista disparate ed è quello di una visione putiniana della politica. Ed è fatto di uno scarso affidamento verso le istituzioni elettive – quelle che il voto popolare può di volta in volta assegnare a questo a quello schieramento – intrecciato all’incessante tentativo di controllare quei centri di potere che invece restano esterni al suffragio elettorale: autorità indipendenti, autorità di garanzia, la magistratura, le banche, le forze armate, l’informazione. Lo scopo è duplice: creare una rete di controllo istituzionale che resti in piedi anche in seguito a rovesci elettorali e difendere la propria permanenza al potere da controlli o contrappesi d’altro genere.

Putin, in grande, governa con gli stessi criteri: ridurre l’influenza della Duma, controllare l’informazione, influire sui gangli costituzionali del paese, manovrare da dietro le quinte le grandi leve economiche. La democrazia resta come cornice, ma perde il suo posto sulla ribalta politica.

E’ abbastanza paradossale che tutto questo accada con il centro sinistra al governo. Si era detto che il governo Prodi sarebbe stato il governo del “saper fare”, della competenza, contro il pressappochismo un po’ insipiente del centro-destra. Oggi si capisce meglio la natura di quel “saper fare”: mettere persone di fiducia nelle istituzioni indipendenti, azzerare il dissenso dei civil servant renitenti, difendere i propri uomini a qualsiasi costo.

C’è n’è a sufficienza per far rimpiangere Gianni Letta e il cosiddetto “lettismo” anche al più tenace degli antiberlusconiani.