A Pontida Bossi non dice che il nemico del federalismo sono le Regioni

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A Pontida Bossi non dice che il nemico del federalismo sono le Regioni

21 Giugno 2010

Per spiegare il mistero della fede uno dei più importanti Padri della Chiesa soleva dire: "Credo quia absurdum". Credo perché è assurdo. Silvio Berlusconi – mi auguro – non chiede un atto di fede così intenso e assoluto. Ecco perché siamo liberi di pensare che la nomina a ministro di Aldo Brancher abbia ben poco da spartire con il federalismo.

E’ vero. Brancher è da sempre l’ufficiale di collegamento tra Forza Italia e la Lega Nord. Attribuire a lui la delega al completamento del federalismo (fiscale o che altro ?) è sicuramente un segnale d’attenzione del premier al più fedele alleato, oggettivamente sotto pressione per la protesta dei governatori e dei sindaci (in particolare delle amministrazioni del Nord), i quali – Cicero pro domo sua –   non esitano ad evocare il fantasma del federalismo allo scopo di ottenere qualche sconto nei tagli di Tremonti.

Toccata sul vivo, la Lega Nord – che ha fatto del federalismo la nuova pietra filosofale della politica italiana – ha bisogno di un contentino proprio quando si appresta a compiere il rito di Pontida. Come dire? Poco ma volentieri. E Brancher si è ritrovato ministro-garante della promessa federalista. Al neo ministro vanno i nostri auguri e il nostro apprezzamento.

Ma le difficoltà del federalismo non nascono a Roma. A suonare le campane a morto, infatti, non sono stati il Governo e Giulio Tremonti nella manovra ora al Senato, ma le Regioni e i loro governatori (con alla testa l’asse Formigoni-Errani). Con la loro protesta hanno dimostrato ancora una volta quale sia la loro idea di federalismo: non recidere mai il cordone ombelicale con lo Stato, il quale è tenuto – a loro avviso – a coprire interamente le spese mediante i trasferimenti di bilancio.

Più volte abbiamo sostenuto che il federalismo fiscale non decollerà mai fino a quando non si troverà il modo di coprire – senza correre rischi – la spesa per la sanità. Perché le Regioni – ormai lo abbiamo capito – non vogliono essere investite del problema delle entrate, esercitando il loro potere fiscale.

Se si pone il problema di fare dei tagli o di procurarsi delle risorse senza dover battere a cassa a Roma, le Regioni marcano visita. Probabilmente riusciranno nel loro intento e Tremonti allenterà i cordoni della borsa. In fondo, restiamo un Paese malato di retorica.

Ad un certo punto della storia patria ci siamo messi a lodare le istanze locali e a criticare quelle centrali. Durante la prima Repubblica di quest’operazione mistificatoria è stato protagonista il Pci, il quale era saldamente insediato nel potere locale, mentre la Dc e i suoi alleati comandavano a Roma. L’istituzione delle Regioni, nel 1970, fu persino la risposta della politica ai rivolgimenti sociali dell’autunno caldo della fine del 1969. 

Nella seconda Repubblica a tessere le lodi del decentramento si è aggiunta, con convinzione fideistica, la Lega. Facendo scuola, perché il fronte regionalista è oggi intoccabile, presuntuoso ed arrogante, come se lì stesse il "sale" della politica. Nessuno, invece, si sforza di compiere un’analisi onesta della qualità del sistema regionale e locale (4.700 Comuni sono al di sotto di 5mila abitanti). Lo fanno gli elettori segnando il più alto livello d’astensionismo nelle elezioni regionali. Si parla tanto delle Province, dimenticando che un livello intermedio tra il Comune e la Regione esiste, più o meno, ovunque.

Nessuno si azzarda, però, a notare che le nostre venti Regioni avrebbero bisogno di una revisione: alcune sono più grandi di uno Stato balcanico; altre più piccole di un quartiere di Roma. Una di queste micro-Regioni ha più amministratori pubblici di tutto il Texas. Ma ormai parlare di Repubblica delle autonomie è diventato un luogo comune. La riforma del Titolo V, dell’inizio del decennio, ha prodotto l’effetto di un vero e proprio ictus istituzionale, aggiungendo ipocrisia e confusione.

Che altro dire? Per fortuna, siamo in bolletta. E il federalismo – adesso lo sappiamo – costa. Perché i governatori delle Regioni hanno il vecchio vizio di essere liberali a Roma e papalini in provincia.