A proposito di Davis e dell’arte che non ha consensi

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A proposito di Davis e dell’arte che non ha consensi

09 Marzo 2014

Sembra che nessuno dei critici che hanno recensito la bella pellicola di Ethan e Joel Cohen ‘A proposito di Davis’ (titolo originale Inside Llewyn Davis) abbia saputo centrare l’argomento principale del film.
La prima impressione è quella di un’opera intimista. Si racconta della vita di un cantante folk nella scena musicale newyorkese degli anni sessanta.

Llewyn Davis canta e suona la chitarra nei locali del Greenwich Village, vive alla giornata, ospite sui divani di conoscenti, e ha una relazione complicata con la donna del suo migliore amico che, diversamente da lui, riscuote successo. Lo seguiamo nei vani tentativi di affermarsi, durante esibizioni nei club, liti con manager truffaldini e audizioni fallimentari e ci sorprende l’atteggiamento disincantato nei confronti delle sue vicissitudini.

Il film è arricchito dalla splendida fotografia di Bruno Delbonnel e dalla partecipazione di alcuni straordinari attori: John Goodman nella parte di un jazzista dandy eroinomane e F. Murray Abraham nel ruolo di un potente agente discografico. La scena madre è senza dubbio quella dell’audizione in cui, mentre Davis canta, si legge nel volto dell’agente la sorpresa e l’ammirazione per la bellissima canzone, anche se alla fine dirà: “Temo che questa musica non faccia molti soldi”.

La vita del protagonista sembra a un bivio ma il tentativo di mollare tutto e imbarcarsi su una nave seguendo le orme del padre, militare di carriera, fallisce miseramente. E così Davis torna alla vita di sempre, passando le serate nel club di ogni notte dove, insieme a lui e ad altri artisti, capita sul palco un giovanissimo Bob Dylan.

Un film semplicemente perfetto nella sua apparente semplicità, perché attraverso lo stratagemma del flashback i Cohen costruiscono una trama circolare in cui la ripetizione ne sottolinea il significato sostanziale: l’inutilità dell’arte quando non ha consensi.