A proposito di Somalia
14 Gennaio 2007
di Carlo Meroni
Ho avuto modo di leggere “l’uovo di giornata” riguardante “la speranza somala”. Vorrei dire la mia, poiché il mio servizio militare come volontario del terzo rgt. Bersaglieri lo passai a cavallo fra il 1993 ed il 1994 proprio in questo splendido ma devastato paese che mi è rimasto nel cuore, un po’ per il dolce ricordo dei miei vent’anni ed un po’ per i tanti legami fra Somalia ed Italia di cui fui testimone.
Per comprendere però la schizofrenica situazione attuale dell’ex colonia Italiana, bisogna chiarire un po’ le tappe storiche che hanno portato questo paese a non avere, negli ultimi sessant’anni, una forma di governo vera e stabile per più di sette anni consecutivi, ed una pace interna che praticamente non è mai esistita.
Con il trattato di pace di Parigi del 1947, l’Italia fu costretta a rinunciare ai possedimenti in Africa e la responsabilità per l’assetto delle ex colonie fu assegnata ai cosiddetti “quattro grandi” (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica). Nel 1948, non avendo raggiunto un accordo soddisfacente, i “quattro grandi” ricondussero la questione al vaglio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che nel novembre 1949 approvò un piano che assegnava all’Italia la sua ex colonia in amministrazione fiduciaria per un periodo di dieci anni (1950-1960), finito il quale la Somalia avrebbe conseguito l’indipendenza.
Il 1° luglio 1960 la Somalia divenne indipendente e si unì all’ex protettorato britannico del Somaliland, divenuto indipendente il 26 giugno. Il primo presidente della nuova nazione, Aden Abdullah Osman Daar, eletto nel 1960, fu spodestato nel 1967 da Abdi Rashid Alì Shirmarke, che due anni dopo fu assassinato e un colpo di stato militare portò al potere Muhammad Siad Barre. Nel 1970 Barre dichiarò la Somalia stato socialista e negli anni successivi al suo insediamento nazionalizzò la maggior parte delle attività economiche del paese.
A metà del 1977 il gruppo etnico somalo della regione etiope dell’Ogaden iniziò a combattere per la propria autodeterminazione. Iniziò così una cruenta guerra fra i ribelli (spalleggiati dalla Somalia) ed Etiopia, sostenuta da Cuba e dall’URSS.
Nel 1978 l’Etiopia riuscì chiaramente a ripristinare il controllo sulla regione, infliggendo gravi perdite all’esercito somalo. In seguito agli scontri nell’Ogaden circa due milioni di profughi cercarono rifugio in Somalia. Gli Stati Uniti fornirono aiuti umanitari e militari a entrambi i contendenti in cambio dell’utilizzo della base navale di Berbera, impiegata in precedenza dai sovietici. Le ostilità con l’Etiopia continuarono fino al trattato di pace siglato nel 1988.
Nel frattempo, lungo il corso degli anni Ottanta il movimento nazionalista somalo proseguì la campagna militare contro il governo di Barre, conquistando parte del Nord del paese. Ed emersero anche altri numerosi movimenti di opposizione, sostenuti da diversi gruppi etnici.
La guerra civile non ebbe quindi soste lungo tutti gli anni 80, e Barre fu costretto ad abbandonare la capitale nel gennaio 1991. Nel corso dello stesso anno l’ex Somaliland britannico proclamò l’indipendenza, con Mohamed Ibrahim Egal alla presidenza. Nei due anni successivi circa 50.000 persone furono uccise in scontri armati tra opposte fazioni e quasi 300.000 persone morirono di inedia a causa della difficoltà di distribuire aiuti e cibo nel paese devastato dalla guerra.
Nel dicembre 1992 un contingente della forza di pace delle Nazioni Unite (ONUSOM), guidato dagli Stati Uniti e comprendente anche una ben nutrita rappresentanza dell’esercito Italiano, venne inviato in Somalia nel tentativo di restaurare l’ordine e di permettere alle organizzazioni internazionali di riprendere la distribuzione di viveri e fornire assistenza umanitaria; all’operazione venne dato significativamente il nome “Restore Hope” (“Riportare la speranza”).
Il contingente dell’ONU tuttavia non seppe affrontare la complessa situazione etnica e politica somala e non sempre operò in modo equidistante tra le varie fazioni. Di fatto, l’operazione fallì e nel marzo del 1995 le forze dell’ONUSOM abbandonarono un paese lacerato da un conflitto ancora più aspro tra le due maggiori fazioni rivali del generale Mohamed Farah Aidid e di Mohamed Alì Mahdi.
Nell’estate del 1996 al generale Aidid, morto nel corso di un combattimento, succedette il figlio Hussein.
Il Somaliland ricostruì un vero e proprio stato e si dotò di una Costituzione, di un Parlamento e di un ristretto numero di funzionari. In altre regioni del paese (ad esempio nel Puntland, nel Bari, nel Nugal e nel Mudug) sorsero dei piccoli ed autonomi governi retti dai locali clan, che quantomeno cercarono di assicurare la ripresa di una minima attività economica.
Un piano di ricostruzione dello stato somalo fu lanciato nel 1999 a Gibuti dalla conferenza nazionale di riconciliazione, che riunì alcune fazioni somale e venne patrocinato dall’autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD; una struttura creata nel 1992 alla quale aderirono diversi paesi della regione) e sostenuto dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea e dalla Lega Araba. Ma il piano incontrò l’ostilità della gran parte dei clan, che lo ritennero “prematuro”.
Nell’estate del 2000 il piano diede tuttavia i primi esiti, con l’elezione di un presidente (Abdiqassim Salad Hassan), di un governo, e di un Parlamento che avrebbe dovuto esercitare il potere legislativo per un periodo di transizione della durata di tre anni. Come da copione, diverse fazioni contrarie al progetto si sono incontrarono ad Addis Abeba per costruire un fronte comune contro Hassan. Nell’ottobre 2001 il primo ministro era già stato estromesso con un voto di sfiducia mentre si trovava negli Stati Uniti. Nell’ottobre 2002, dopo mesi e mesi di rinvii, si tenne l’ennesima conferenza di riconciliazione nazionale organizzata dall’IGAD. Nonostante la presenza di oltre 900 delegati (perlopiù rappresentanti solo di interessi personali o tribali), non si pervenne ad alcun risultato. La Somalia restò quindi divisa tra fazioni armate e abbozzi di nuove formazioni governative, come pure oggetto degli interessi dei paesi confinanti e territorio logistico ideale per le organizzazioni terroristiche, che sul territorio somalo hanno i loro campi di addestramento. Senza scordare il contrabbando di armi, lo smercio di droga ed ogni altro tipo di traffico illecito che in uno stato privo di qualsiasi forma di governo, di legislazione e di controllo, può espletare le sue funzioni con la più assoluta tranquillità.
Alla fine del 1994, all’interno del palazzetto dello sport di Nairobi, Kenia, 275 deputati “in esilio” hanno eletto quale nuovo capo dello stato somalo Abdullahi Yusuf Ahmed, il quale ha messo piede per la prima volta nella capitale del paese che presiede solo oltre due anni dopo la sua elezione: l’8 gennaio scorso! Per subire, solo pochi giorni dopo, lo smacco di una massiccia incursione dell’aviazione statunitense nei cieli somali senza esserne nemmeno informato e dover abbozzare imbarazzanti dichiarazioni davanti alle agenzie di stampa di mezzo mondo.
Dulcis in fundo, Ahmed si trova ad essere il presidente “senza portafoglio” (visto l’imbarazzante vuoto delle casse statali e la totale mancanza di risorse economico-finanziarie) di un vasto territorio (640.000Kmq: oltre il doppio dell’Italia) impossibile da controllare capillarmente, ricco di insidie anche dal punto di vista morfologico e quindi comodo solo per gli spostamenti di veri esperti conoscitori del territorio, con vie stradali asfaltate ridotte all’osso (2000km circa), fatiscenti e risalenti ancora all’epoca imperiale mussoliniana, e soprattutto ancora saldamente in mano alle ormai celebri “corti islamiche” pronte all’introduzione della shari’a, più per fanatismo che per vera convinzione e fede religiosa. Li ho ancora bene in mente e davanti agli occhi, questi masticatori perenni di khat, coi denti color ebano, in piedi sulle loro Toyota pick-up e con lo sguardo drogato che portava impressi i segni dell’odio, dell’invidia, della miseria ed alla ricerca di una qualsiasi minima forma di affermazione sociale. E cosa c’è di meglio, in un tipo di società cosi arretrata, che farsi vedere abili ed impavidi nell’armeggiare un kalashnikov o una mitragliatrice sul retro di un furgone? Ho visto “Apocalypto”, ieri sera. Vedendo all’opera quei guerrieri (di oltre seicento anni fa), le loro crudeltà ed i loro riti tribali ho ricordato cose di cui fui testimone in Somalia (quattordici anni fa): la caccia ai facoceri, le infibulazioni alle neonate viste all’ospedale di Jalalaxi, le vagine vergini delle adolescenti cucite dai padri con velli di cammello a testimonianza della mai avvenuta deflorazione e per una maggiore “prezzatura” all’atto del matrimonio/vendita, gli uomini costantemente seduti ad oziare fuori dalle capanne di paglia e fango e le donne vessate nel lavoro, nella cura dei figli e nel sostentamento della famiglia; le mogli (in Somalia vige la poligamia) acquistate con un numero di cammelli variabile a seconda delle loro virtù e della loro età e bellezza, gli anziani stregoni spesso più ascoltati dei “medici senza frontiere”.
Invece tutta la civiltà, la bellezza, l’architettura, il commercio che si potevano respirare nella lussureggiante Mogadiscio e, che piaccia o no, erano state portate dall’Italia del vituperato ventennio, sono ormai state spazzate via da uno scellerato post-colonialismo e da decenni di guerre civili di ogni tipo e ferocia.
Come sempre, il male si ciba abbondantemente di ignoranza, e l’ignoranza è facilmente fomentabile da abili incantatori. Chi ha la testa e capisce, scappa da quell’inferno. Io fui lieto del fatto che un giovane somalo che sostava sempre fuori dal nostro campo e che ci espletava anche qualche incombenza al villaggio (detersivo, sigarette…), da noi ribattezzato “folgore” per la sua scaltrezza, dopo essersi fatto mio amico e conquistata la mia fiducia, un giorno con un abile stratagemma mi sfilò cento dollari di tasca senza che io me ne accorgessi. Non lo rividi più. Per me non cambiò la vita, per lui certamente. Erano soldi che un somalo non guadagnava neanche in una intera vita: bravo “folgore”, spero tu abbia almeno raggiunto la frontiera col Kenia!
Ma per chi non è così svelto e rimane? Ai guerrieri raffigurati da Gibson, davano in pasto sacrifici umani perché credevano così di poter placare il dio del sole. E se il moderno proselitismo portasse sempre più kalashnikov in mani piene solo di miseria ed ignoranza facendo credere loro di sostenere così al meglio la causa del Profeta del Corano? Ricordiamo che stiamo parlando di uno stato islamico al 99%, totalmente privo di controllo interno ed esterno.
Dal settembre 2001 siamo in guerra. Una guerra diversa dalle solite che siamo stati abituati a leggere sui libri di storia, ma pur sempre guerra. La prevenzione diventa quindi un’arma indispensabile e fondamentale contro l’esercito transnazionale del terrore.
Al qaeda può trovare terreno molto fertile in Somalia: spero vivamente che la classe politica italiana lasci un po’ da parte le manfrine interne e cerchi di avere a cuore il destino politico-sociale di questa nostra splendida ex-colonia, e non di lasciarla al suo triste (e potenzialmente pericoloso per l’occidente) destino. So che il ministro degli esteri D’Alema preferisce palcoscenici ben in vista a “teatrini di periferia” come può essere l’affaire Somalia, ma criticare “a prescindere”, direbbe il Principe De Curtis, gli Usa per il raid definito “unilaterale” (…e da quando in guerra si chiede permesso al nemico per un attacco??) della scorsa settimana è un atto puramente politico che certo non giova ne al vero bene della Somalia ne alle nostre responsabilità di ex-coloni.