A Torino non brucia solo Israele, ma anche l’Italia e l’Europa

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A Torino non brucia solo Israele, ma anche l’Italia e l’Europa

07 Maggio 2008

Torino – Alla Fiera del Libro di quest’anno la letteratura israeliana è l’ospite d’onore, e il presidente di Israele Shimon Peres è atteso nel fine settimana per la cerimonia di inaugurazione. Moltissimi altri interverranno, in buona parte allo scopo di attaccare Israele e i suoi sostenitori. Il primo maggio, a Torino, un gruppo di dimostranti ha dato alle fiamme una bandiera israeliana (oltre che una bandiera americana, nel caso ci fossero dubbi), e ha annunciato ulteriori azioni una volta avviatasi la Fiera. Le autorità locali, comprensibilmente, hanno espresso preoccupazione, ma hanno reagito con la pavida rinuncia a far valere lo stato di diritto, una rinuncia alla quale da tempo, purtroppo, ci siamo dovuti abituare: hanno vietato introdurre bandiere israeliane nello spazio della Fiera.

In sede privata la polizia afferma che è soltanto una questione di numeri. È atteso un certo numero di dimostranti anti-Israele, e le forze dell’ordine sono pronte ad accoglierli. A destare preoccupazione è il fatto che se altri decidessero di manifestare a sostegno di Israele, il numero di individui potenzialmente violenti potrebbe raddoppiare – e questo richiederebbe l’immissione di forze addizionali chiamate da fuori Torino, preparando la scena per una situazione davvero sgradevole. Per farla breve, sono stati intimiditi e hanno ceduto all’intimidazione. Ormai è perfettamente accettabile bruciare una bandiera israeliana in Italia, ma le autorità potrebbero tenere d’occhio chi ne portasse una con sé per celebrare lo stato di Israele.

Il fatto che un atteggiamento di questo tipo sia stato adottato a Torino, una città che simpatizza per la sinistra e vanta un’antica comunità ebraica (basti pensare a Primo Levi), ci aiuta a capire per quale motivo in occasione delle recenti elezioni gli ebrei italiani abbiano sostenuto a sorpresa il centro-destra, perfino a Roma, dove la comunità locale era fedele al centro-sinistra da oltre una generazione. Quando abitavamo là (mia moglie Barbara e io ci siamo sposati a Roma nel 1973) gli ebrei appartenevano allo zoccolo duro del Partito Comunista, e più tardi dei suoi successori. Questa volta non è andata così. Una metà abbondante dei residenti del vecchio ghetto sulle rive del Tevere ha votato per il centro-destra, offrendo lo spunto al Financial Times per un titolo di sorprendente cattivo gusto sul numero del 4 maggio: Ebrei e fascisti uniti per il sindaco di Roma. Il corrispondente da Roma, Guy Dinmore (che in un’altra occasione ha stabilito, a proposito della questione iraniana, che io sarei un monarchico), ha chiarito il concetto nei primi due paragrafi:

“La vittoria del primo sindaco di destra dai tempi di Benito Mussolini è stata celebrata dai fascisti di Roma come una vittoria storica sulla sinistra. Branchi di giovani dall’aria poco raccomandabile, sostenitori di Gianni Alemanno, hanno salutato la sua apparizione in Campidoglio alzando il braccio nel saluto romano e urlando insulti all’indirizzo dei comunisti e degli immigrati”.

Bisogna continuare a leggere per scoprire che gli ebrei si sono finalmente stancati di una sinistra italiana che sostiene ciecamente qualunque cosa si spacci per “palestinese” e brucia bandiere israeliane. Questa forma di subdolo disprezzo per una comunità religiosa che ha l’ardire di affermare i propri interessi a spese dei beniamini dei “media progressisti” fa il paio con le osservazioni sarcastiche di Christopher Dickey sul battesimo pubblico, e ben più che pubblico (in Vaticano, per mano del papa, la vigilia di Pasqua), di uno dei più noti intellettuali del paese, Magdi Allam. Scrivendo su Newsweek Dickey ha definito Allam “un noto musulmano autodenigratore” e ha avanzato il sospetto che la conversione fosse una provocazione indirizzata da Benedetto XVI al mondo islamico. Nessuno, a mio parere, ha motivo di essere sorpreso quando la più alta autorità della chiesa cattolica celebra battesimi in pubblico, e stenterei a immaginare per Magdi Allam una descrizione più fuorviante di quella avanzata da Dickey. Magdi Allam è un egiziano cresciuto in una comunità sunnita estremamente aperta e successivamente trasferitosi in Italia, dove ha raramente praticato la sua religione. Nel corso degli ultimi anni ha vissuto due conversioni parallele, di cui una l’ha condotto al cristianesimo, l’altra a posizioni politiche di orientamento conservatore. Un’evoluzione non dissimile da quella degli ebrei romani. In precedenza Allam scriveva per il principale giornale di sinistra del paese, La Repubblica, ma ora è vicedirettore del Corriere della Sera, dalle cui colonne si è guadagnato una forte influenza e una generale ammirazione. È esattamente il tipo di persona che gli immolatori di bandiere e i media sedicenti progressisti temono: brillante, coraggioso e coerente.

Nel frattempo il presidente della Libia Muammar Gheddafi ha deciso di ficcare il naso nella politica italiana, incaricando uno dei suoi figli di ammonire il primo ministro in pectore Silvio Berlusconi per dissuaderlo dall’assegnare un ministero a Roberto Calderoli, uno dei principali esponenti della Lega Nord. Calderoli era stato ministro nel precedente governo Berlusconi e aveva causato grande irritazione nel mondo musulmano e nell’intelligencija italiana politically correct ostentando una maglietta che riportava una delle famose caricature danesi del profeta. Gheddafi Jr. ha minacciato gravi conseguenze (contribuendo senza dubbio ad assicurare il posto a Calderoli), e la Lega Araba, invitata a pronunciarsi su una tale arrogante intromissione negli affari interni di un paese sovrano – così arrogante che il ministro degli esteri Massimo D’Alema, cui non era mai capitato di provare avversione per un fondamentalista islamico, l’ha denunciata pubblicamente – ha tergiversato. Dal momento che gli stessi italiani non avevano ancora deciso nulla, è stata la risposta, la Lega Araba non aveva alcun motivo di intervenire.

La mia impressione è che il destino di questo continente sia più che mai in bilico, e che l’Italia, come è stato per secoli, sia il laboratorio politico di buona parte del mondo occidentale. Queste piccole crisi italiane mostreranno prima o poi di essere state decisive. Voglio augurarmi che alcune delle nostre principali testate, se non tutte, mandino a Torino dei cronisti preparati per i grandi eventi del fine settimana.

© National Review Online