A trent’anni di distanza, cosa c’insegna la visita di Sadat in Israele

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A trent’anni di distanza, cosa c’insegna la visita di Sadat in Israele

A trent’anni di distanza, cosa c’insegna la visita di Sadat in Israele

21 Novembre 2007

di Fiamma Nirenstein

Nel giorno in cui si festeggiano trent’anni dall’arrivo, nel 1977, di Anwar Sadat all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, ho nelle orecchie il suono delle trombe che lo accolsero, argentine ma soprattutto risonanti di antica grandezza, di una magnitudine che si addice alla memoria epica di ogni epoca. Lui, col volto scuro di fellah egiziano, una piccola, gloriosa mandorla tostata, scese la scala dell’aereo finalmente spogliatosi della volgarità oltranzista dell’aggressione panarabista nasseriana, finalmente splendente di tutta la dignità araba che conviene a un popolo antico che a suo tempo conquistò il mondo. La sua dignità risplendeva proprio nel gesto di realismo di cercare la pace con l’antico nemico che nel ‘73 aveva cercato di battere, dopo che nel ‘67 il suo paese aveva perduto. La sua evidente emozione incontrava il fremito sconfinato del popolo ebraico, che gli stese tappeti rossi d’amore per ogni dove, fino alla Knesset, dove oltre al suo discorso ricordo soprattutto un episodio che mi ha raccontato il professor Bernard Lewis. Le sue guardie del corpo, ritte vicino a lui, seguirono a bocca aperta la discussione dei deputati, il movimento un po’ confuso su e giù per l’emiciclo e nei corridoi, e uno chiese all’altro “Cos’è questo?”. Il secondo rispose: “Credo che sia quella che chiamano democrazia”. E il primo a sua volta: “Sembra una ben dolce cosa”.

La prima cosa che viene in mente guardando le immagini di Sadat è che, anche dopo che un popolo intero ha cantato “sgozza sgozza” (questa era la canzone di moda durante la guerra dei Sei Giorni, poi ripresa nel ‘73), se condotto da un’ispirazione personale giusta, può cambiare, può cercare una strada di moderazione e di pace. Il mondo arabo aspetta una personalità realista e interessata al futuro del proprio popolo più che al suo personale interesse di dittatore, che lo guiderà sempre verso la guerra, verso la repressione del suo popolo e l’abbindolamento attraverso l’odio antisraeliano.

Ma in secondo luogo, vedendo il proseguo della pace Israelo-Egiziana, non resta che considerare con tristezza il gelo di questa pace, la proibizione egiziana ai suoi cittadini di visitare da turisti Tel Aviv e Gerusalemme, la tacita connivenza con i terroristi che introducono tonnellate di armi e tritolo e migliaia di terroristi a Gaza tramite le gallerie sotterranee lungo il confine fra Gaza e il Sinai, la complicità ideologica con le organizzazioni e i cosiddetti intellettuali che seguitano a pubblicare Mein Kampf e riempiono la stampa di editoriali e caricature antisemite, e anche con le libere organizzazioni di artisti che, come massima libertà, individuano quella di proibire la partecipazione del film israeliano “La visita dell’Orchestra” (premio della critica a Cannes) che parla del rapporto fra gente semplice da una parte e dell’altra, con amore e identificazione.

Un uomo è fondamentale, ma non basta. Alla vigilia della Conferenza di Annapolis, è bene ricordarlo: Abu Mazen ha i suoi estimatori, è un leader importante, ma la rivoluzione pacifica richiede forze immense e soprattutto una decisa educazione del popolo, che non indulga, come invece fa Abu Mazen e anche il rais egiziano Hosni Mubarak, a occhieggiamenti estremisti.

Infine: la vicenda di Sadat è terribilmente espressiva nel suo tragico finale. La sua uccisione ci parla della forza dei Fratelli Mussulmani. Oggi, oltre che con loro, abbiamo a che fare con Al-Qaeda e con l’Iran che finanzia Hamas e gli Hezbollah. E quant’altri.

(dal blog di Fiamma Nirenstein, all’indirizzo
http://www.fiammanirenstein.com/articoli.asp?Categoria=6&Id=1834)