Addio ai Gelsomini. Inizia dai film la censura salafita in Tunisia
24 Luglio 2011
“La libertà è una battaglia”, così dichiarava la regista tunisina Nadia El-Fani nel 2002. Nella stessa intervista sosteneva che “i tunisini hanno un forte senso dell’umorismo e amano la libertà”. Chiunque conosca la Tunisia e i suoi abitanti non può che confermare queste affermazioni. Purtroppo la rivoluzione del gelsomino, positiva per tanti aspetti, ha riportato in patria l’estremismo islamico, sia sotto forma dell’ideologia dei Fratelli musulmani sia nella sua forma più radicale ovvero quella salafita. Ebbene Nadia El-Fani e il suo documentario contro l’estremismo islamico e favore della laicità Ni Allah ni maitre , proiettato lo scorso 18 maggio al Festival di Cannes, sono tra le prime vittime della censura islamica in Tunisia. L’accusa che le viene rivolta è duplice: in primo luogo la si condanna in quanto dichiaratamente atea, in secondo luogo perché nel documentario avrebbe oltraggiato l’islam.
Il 26 giugno scorso un centinaio di estremisti islamici ha tentato di bloccare la proiezione di Ni Allah ni maitre presso il cinema AfricArt di Tunisi del film Ni Allah ni maître. Gli slogan dei manifestanti erano inequivocabili: ‘La Tunisia è uno Stato islamico’ oppure ‘Allahu Akbar’. Nonostante alcuni degli organizzatori dell’evento avessero invitato i manifestanti a guardare il film prima di giudicarlo, questo non è accaduto. Fatto ancora più grave è che la polizia avrebbe consigliato di non proiettare il film e sarebbe intervenuta tardi e con scarsa decisione, al momento dell’attacco alla sala. Anche la trentina di salafiti arrestati durante i tumulti sono stati ben presto rilasciati. Ironia della sorte, sarà invece Nadia El Fani a dovere comparire davanti alla giustizia.
L’avvocato tunisino Monaem Turki, già celebre alle cronache per avere chiesto all’Agenzia tunisina di internet la chiusura di alcuni siti pornografici sul web tunisino, unitamente ad altri due colleghi, ha chiesto di avviare un’inchiesta contro la regista al fine di impedire la proiezione della pellicola in Tunisia in quanto blasfema e contro i valori islamici. Preoccupante è stata la dichiarazione dell’avvocato durante un’intervista televisiva nella quale ha ammesso di non avere mai visto il documentario in questione, ma di avere semplicemente letto qualche commento sulla stampa. Il 13 luglio la procura della Repubblica presso il tribunale di prima istanza di Tunisia ha purtroppo confermato l’apertura di un’inchiesta nei confronti della El Fani. In un comunicato reso pubblico l’8 luglio scorso il Ministero della Cultura tunisino, presieduto dall’accademico Ezzeddine Beschaouch, aveva tenuto a precisare che “il film non ha ricevuto alcuna sovvenzione statale né prima né dopo la rivoluzione” del gelsomino. Il documento ricorda altresì alle persone preposte di “verificare ogni informazione prima di diffonderla per evitare qualsiasi provocazione e turbamento nell’opinione pubblica.” Nel frattempo la pur sempre coraggiosa regista ha persino deciso, quasi autocensurandosi, di cambiare il titolo del film in questione, passando da Ni Allah, ni maître a un meno perentorio, ma comunque ironico Laïcité, inch’Allah (’Laicità, se Dio vuole’). Lo ha fatto proprio a seguito delle critiche che vedevano nel film un attacco all’islam.
Sul sito del partito politico Ennahdha legato ai Fratelli musulmani, che ha formalmente condannato l’assalto contro il cinema che ma che sostiene che si tratti comunque di una “provocazione” anti-islamica, compare un articolo a firma Lotfi al-Akhal, “ingegnere tunisino, residente a Osaka in Giappone” che esordisce con le seguenti parole: “La proiezione in alcune sale cinematografiche tunisine del film Ni Allah ni maitre da parte di atei estremisti (che si autodefiniscono artisti) mi preoccupa molto perché molti critici non si sono resi conto della gravità di questo crimine non solo nei confronti del popolo tunisino e della sua rivoluzione, ma anche nei confronti di tutti quegli uomini che vanno sotto la descrizione di credenti di Allah. L’autore attacca duramente non solo gli atei, come la El Fani, ma anche i laici che hanno causato solo danni all’umanità. Il messaggio è chiaro e inequivocabile: “l’islam è risorto ed è ora di fare sul serio. Per questa ragione tutti i partiti e i movimenti islamici (soprattutto in Tunisia, Egitto, Turchia e Malesia), tutti gli studiosi, esperti e cittadini devono agire seriamente per cacciare dalle loro nazioni l’arretratezza e la dipendenza e diffondere nuovi punti di vista di modo da fondare un nuovo ordine mondiale che si fondi sull’islam”. L’autore conclude con una chiara ed esplicita citazione coranica: “ Forse colui che era morto, e al quale abbiamo dato la vita affidandogli una luce per camminare tra gli uomini, sarebbe uguale a chi è nelle tenebre senza poterne uscire? Così sembrano graziose ai miscredenti le loro azioni” (VI, 122).
Quanto sta accadendo in Tunisia alla regista Nadia El Fani, unitamente alle recenti minacce di morte nei confronti del regista tunisino Nouri Bouzid, deve fare riflettere. Se prima della rivoluzione del gelsomino, Ben Ali colpiva senza mezze misure i propri oppositori a prescindere dall’appartenenza politica o ideologica, mai si è assistito a condanne per blasfemia o apostasia. Se in Egitto già in passato si sono avute condanne per apostasia in tribunali civili che hanno divorziato d’ufficio intellettuali del calibro del docente universitario Nasr Hamid Abu Zayd oppure la femminista Nawal al-Saadawi, in Tunisia tutto questo era sconosciuto. Ebbene, ritengo che i giovani tunisini, le attiviste, gli intellettuali, che sono stati l’anima della rivoluzione non meritino di passare dalla dittatura di Ben Ali a una dittatura e a una censura in nome della religione islamica nella sua interpretazione più radicale e più lontana dalla tradizione dell’islam tunisino. Il 21 settembre Laïcité, inch’Allah (sic!) uscirà in Francia, sarebbe auspicabile che in Italia e in Europa si organizzasse la proiezione del film e si lanciasse una campagna a favore della libertà di espressione e dei diritti umani universali per salvaguardare tutte quelle persone sulla sponda sud del Mediterraneo che hanno lottato per un futuro migliore, ma che rischiano purtroppo di cadere nelle pericolosissime maglie di una “democrazia” islamista.