Addio al mondo che conosciamo e benvenuti nell’era post-americana

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Addio al mondo che conosciamo e benvenuti nell’era post-americana

10 Agosto 2009

Secondo un’inchiesta realizzata in occasione dell’Earth Day, un terzo degli scolari tra i 6 e gli 11 anni pensa che – quando saranno cresciuti –,  il pianeta Terra andrà distrutto. E’ una grande notizia, vero? Voglio dire, non per il pianeta Terra ma almeno per la “consapevolezza ambientale”. Congratulazioni ad Al Gore, al Sierra Club e agli eco-propagandisti del sistema educativo pubblico che hanno avuto successo in questo tremendo compito di traumatizzare i bambini d’America. Come accade tradizionalmente, la maggior parte dei ragazzi che vedi gironzolare per strada annunciando la fine del mondo fra qualche anno si risveglierà ancora al proprio posto. Ma è già abbastanza aver persuaso milioni di bambini di prima elementare che i loro anni migliori sono già passati.

Chiamatemi pure matto ma scommetto che tra 15-20 anni il pianeta sarà ancora lì dov’è, insieme alla maggior parte dell’“ambiente” – la vostra flora e la vostra fauna, i vostri orsi polari e i bradipi che si arrampicano e via dicendo. Ma da un punto di vista geopolitico siamo su una specie di altalena infernale, ed è improbabile che il mondo che ci resta sarà compatibile con quello in cui si è abituato a vivere la maggioranza degli americani.

Per esempio, l’altro giorno Hillary Clinton ha detto che il Pakistan rappresenta “una minaccia mortale” per… L’Afghanistan? L’India? No, per il mondo intero! A sentirla, sembrerebbe che il Pakistan è tanto spaventoso quanto il Suv della mamma del piccolo Jimmy. La Clinton ha in mente una sola idea. Crede che Asif Ali Zandari, il tizio che gestisce formalmente in paese, in realtà non ha nessun potere. Il presidente pachistano sta cedendo sempre più terreno alle “filiali locali” dei Talebani. Quando il tema viene trattato dai telegiornali, normalmente emergono vaghi accenni alla folla pro-Osama Bin Laden che controlla il “Nordovest” del Paese, come se questa gente fossero i selvaggi del rurale Idaho della “cintura di Zardari”. Di fatto, ora si trovano a circa 60 miglia dalla capitale Islamabad – o, detta all’americana, a un paio di uscite della I-95 a nord di Baltimora: in altre parole, si trovano a una distanza sconvolgente dal centro amministrativo di una nazione composta da più di 165 milioni di persone – e dalle sue armi nucleari. Ecco qual è “la minaccia mortale”.

Che cosa li fermerà? Beh, sicuramente non sarà Zardari, ma neanche il “summit” che lo ha visto protagonista a Washington insieme al presidente Obama e al presidente afghano Hamid Karzai. La creazione del Pakistan è stato il peggiore sbaglio della politica imperiale inglese del Dopoguerra, e tutto ciò che è successo negli ultimi sessant’anni deriva dal fatto che le “patologie pakistane” sono scoppiate in modo incontrollabile a cavallo dei suoi confini, e hanno superato le barriere regionali, globali e forse presto anche quelle nucleari. L’amministrazione Obama possiede almeno un piano, anche limitato e contingente, sulle testate atomiche pakistane, nel caso Islamabad dovesse collassare? Sarebbe molto rassicurante sapere che il piano esiste davvero. Ma mi sorprenderebbe.

Allora che probabilità abbiamo? Che in dieci anni la situazione in Pachistan migliori? O che divenga ancora peggiore? Che la nuclearizzazione di “casi persi” – come le dittature da Pyongyang a Teheran – andrà avanti o che sarà contenuta maggiormente? Che la tetra aritmetica demografica nel cuore d’Europa e i tormenti economici del Giappone saranno accelerati o che questi trend si invertiranno? Che l’assalto della Rinascita Islamica contro la libertà di espressione e gli altri diritti (rappresentati dal recente sostegno delle Nazioni Unite alla legge sulla blasfemia islamica globale) si consoliderà nel mondo occidentale oppure che l’islamismo sarà costretto a ritirarsi?

Uno scommettitore controllerebbe per prima la “peggiore” casella. Perché resistere all’attuale deriva della irresponsabilità richiede una leadership globale. E i cento giorni della nuova presidenza americana di Barack Obama stanno dando un forte segnale al mondo che siamo entrati in quello che Caroline Glick del Jerusalem Post ha chiamato “l’era post-americana”. Quando Gordon Brown ha visitato Washington, Londra si è offesa per un ghigno fuori-programma di uno dei funzionari di Obama il quale, parlando con un giornalista inglese, ha detto che “non c’è niente di speciale con l’Inghilterra. La Gran Bretagna è esattamente come gli altri 190 paesi del mondo. Non dovrebbe aspettarsi un trattamento speciale dagli Stati Uniti”. Andy McCarthy, della National Review, ha fatto un’acuta osservazione: indipendentemente dagli inglesi, questo è lo stesso atteggiamento che l’amministrazione Usa sta avendo nei confronti del proprio Paese: l’America vale quando gli altri 190 Paesi del mondo.

In Europa, qualcuno ha chiesto al presidente se credeva nell’“eccezionalismo americano”. Lui ha risposto: “Credo nell’eccezionalismo americano, nello stesso modo in cui immagino che gli inglesi credano nell’eccezionalismo inglese e i greci in quello greco”. Accidenti, grazie! Un semplice “no” a quanto pare non bastava. Il presidente degli Stati Uniti ci sta dicendo che l’eccezionalismo americano non è altro che una forma di sciovinismo nazionale, un leggero sventolare di bandiere, qualcosa che non ha più importanza degli sloveni che sostengono la loro squadra di calcio nazionale e dei papuani che tifano per la loro nazionale. Tutto questo ha un significato. Il mondo ha avuto a disposizione un paio di millenni per imparare a vivere senza “l’eccezionalismo greco”. Ora invece dovrà abituarsi all’America “post-eccezionalista” in molto meno tempo.

Dal punto di vista di Obama c’è un senso in tutto questo: nella scena domestica è determinato a puntare su una presidenza di trasformazione, di quelle che ricostruiranno il rapporto degli americani nei confronti del governo nazionale (“federale” non è più la parola giusta) in termini di assistenza sanitaria, educazione, eco-totalitarismo, controllo statale dell’economia e molto altro. Con un’agenda domestica così pompata, il resto del mondo è semplicemente d’intralcio.

Qualcuno ricorderà che, in una delle sue emblematiche trovate sul post-eccezionalismo americano, Hillary Clinton ha dato ai russi la possibilità di premere il pulsante del “Reset” (per colpa di un errore di traduzione). Questo pulsante è stato senza dubbio un “resettaggio” – modello Dieci di Settembre, verso un approccio legalistico del tipo “specchietto retrovisore” nei confronti della Guerra al Terrore; un approccio per cui investigare sui funzionari di Bush farà perdere molto più tempo e sforzi che eliminare le testate atomiche in Iran. La ridicola riclassificazione del terrorismo usata dal segretario della Homeland Security – un “disastro causato dall’uomo” – e la sua dichiarazione idiota sul fatto che i kamikaze dell’11 Settembre sarebbero entrati negli Stati Uniti dal Canada (che presumibilmente rende l’11 Settembre un “disastro canadese causato dall’uomo”) sono solo un esempio per capire l’allegra indifferenza dell’amministrazione nei confronti di tutto il rassicurante armamentario dell’era Bush.

Oggi però non è il Dieci di Settembre. In Pakistan, un grande gioiello si trova alla portata dei barbari, il primo di tanti. Alle Nazioni Unite, le proibizioni della libertà di espressione imposte dal blocco islamico renderanno ancora più difficile persino parlare di queste questioni. Nella maggior parte dell’Occidente, il declino demografico significa che non torneranno mai i bei tempi: la recessione è permanente.

E allora, che problema c’è? Per gran parte dell’ultimo decennio la Gran Bretagna e la Francia sono state due potenze in declino dal punto di vista geopolitico e tutto sommato per loro la  vita continua ad essere abbastanza gradevole. Beh, sì. Ma in parte questo avviene perché quando la Gran Bretagna sul punto di sparire passò lo scettro alla nuova superpotenza americana fu uno dei trasferimenti di dominio globale meno dirompenti della storia umana. Nell’“era post-americana” a chi verrà passato lo scettro?

Da gennaio il presidente Obama e il suo team hanno chiacchierato, senza efficacia, con i nemici dell’America, scavalcando gli alleati praticamente in quasi tutti gli angoli del globo. Se siete – tanto per dire – l’India, e avete seguito il tour pieno di scuse di Obama, e avete assistito alla avanzata dei talebani verso le testate pachistane, scommettereste il vostro futuro nella risolutezza americana? A Delhi, a Tokyo, a Praga, a Tel Aviv, a Bogotà, in tutto questi luoghi hanno dato uno sguardo ai primi cento giorni della presidenza Obama e ne hanno tratto le loro conclusioni.

Mark Steyn è un editorialista della National Review ed è autore di America Alone.

Tratto da National Review Online

Traduzione Fabrizia B. Maggi