Addio alle armi, Obama abbandona l’Iraq per un pugno di voti

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Addio alle armi, Obama abbandona l’Iraq per un pugno di voti

25 Ottobre 2011

A leggere le principali riviste americane in questi giorni l’argomento principale non è l’esecuzione di Gheddafi o se il CNT riuscirà davvero nell’arco di pochi mesi a metter mano alla nuova Costituzione e ad avviare il processo che dovrebbe condurre a libere elezioni. Né si parla del voto in Tunisia o del nuovo "delfino" spuntato alla corte dei Saud. L’attenzione è invece tutta concentrata sull’Iraq e sulle ultime mosse del Presidente Obama in materia.

Barack Obama non ha mai legittimato la guerra in Mesopotamia del suo predecessore ed ha fatto del ritito dall’Iraq un punto d’onore della sua Amministrazione: la promessa che doveva essere assolutamente mantenuta e che, guarda caso, il Presidente tira fuori dal cilindro proprio adesso, mentre a Chicago si rimette in moto la sua macchina elettorale. Entro la fine dell’anno l’ultima parte del massiccio contingente di stanza in Iraq tornerà a casa e nel Paese resteranno solo 150 uomini (sic), a protezione del megacomplesso che ospita l’ambasciata americana.

Tutti a casa, con la scusa che il governo iracheno non ha accettato di garantire l’immunità ai soldati americani che avrebbero dovuto restare nel Paese. In realtà Obama, che aveva la necessità di tirarsi fuori il prima possibile dall’Iraq per accontentare la base democratica, non si è sforzato granché per strappare un accordo con la classe dirigente irachena: gli avvocati del Dipartimento di Stato hanno insistito affinché il parlamento iracheno si esprimesse sulla questione dell’immunità quando invece il Presidente avrebbe potuto cercare di mediare strappando un compromesso, materia in cui tra l’altro ha dimostrato di saperci fare.

Con un po’ di mediazione forse si sarebbero potuti lasciare in Iraq quei diecimila uomini Usa necessari alle operazioni di controterrorismo, a sostenere le forze armate irachene ed alle operazioni di peacekeeping, per esempio nell’infuocata frontiera interna con la regione curda. La Casa Bianca avrebbe mostrato di avere a cuore la sovranità dell’Iraq pur senza abbandonare gli alleati  e senza dover occupare il Paese per sempre. Ma i tempi del ritiro dall’Iraq si definiscono a Chicago, non a Washington. Il Presidente guarda al breve periodo, ma non considera le conseguenze della sua decisione. La conseguenza invece, nonostante tutte le rassicurazioni del segretario di Stato, Hillary Clinton, è la peggiore che si potesse immaginare.

Dopo una guerra costosissima, dopo migliaia di vite umane perse sia tra le truppe americane che fra i civili iracheni, dopo tutto quello che è costato mettere in piedi la democrazia a Baghdad, adesso Obama si alza dal tavolo e lascia il desco al peggiore dei suoi nemici, quell’Iran che non aspetta altro che diventare lo stato-guida della regione trasformando l’Iraq in uno dei suoi satelliti. Certo, Obama ci ha abituato alle sue soluzioni in zona cesarini ed anche stavolta chiediamoci cosa s’inventerà al posto dei Predator. Una risposta sono i 4mila "contractor" americani che dovrebbero restare nel Paese dopo il ritiro delle forze americane, pagati per mantenere la calma e garantire l’ordine e gli interessi Usa. 

Ma se Obama pensa di cavarsela con un escamotage del genere non ha capito nulla di questi dieci anni. Come ha scritto Max Boot su "Commentary", se c’è una costante nella storia militare americana è che più tempo le truppe Usa restano in un Paese, più aumentano le prospettive di un successo futuro nella democratizzazione del Paese stesso. E’ andata così in Italia, Germania e Giappone dopo la Seconda Guerra mondiale. Non è andata così in Vietnam, ad Haiti o in Somalia. Ma per Obama la storia non conta e l’Iraq appare soltanto come un trampolino verso la sua rielezione.