Adesso anche la Cina è preoccupata dal Piano Obama contro la crisi

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Adesso anche la Cina è preoccupata dal Piano Obama contro la crisi

19 Marzo 2009

Ci sarà pure una ragione se la scorsa settimana il premier cinese Wen Jiabao ha ritenuto esser suo diritto mandare un forte e chiaro messaggio alla Casa Bianca, al margine della conferenza stampa di chiusura del Congresso popolare nazionale (una specie di parlamento in salsa maoista).

Nel mirino di Beijing il pacchetto fiscale free-for-all lanciato da Obama e dal suo alfiere al Tesoro, Timothy Geithner, e più in generale i rapporti di credito tra la Cina e gli USA. Il primo ministro Jiabao si è infatti detto “profondamente preoccupato”, riferendosi neanche  così velatamente all’esplosione del debito statunitense causato da quella lunga serie di piani di salvataggio (costosi e tutt’altro che capaci di rilanciare la crescita, secondo molti) attraverso i quali il Tesoro USA di Henry Paulson e la Federal Reserve di Bernanke prima, e l’amministrazione Obama oggi, hanno fronteggiato i danni della crisi. I commenti cinesi si rivolgono proprio al piano fiscale di stimolo all’economia reale, il free-for-all appunto, dal costo di 787 miliardi di dollari, a cui si devono aggiungere i 410 miliardi di dollari del budget federale USA per il 2009, che l’amministrazione Obama si appresta a mettere in campo. Il punto della faccenda è che parte di quel pacchetto è in mano a Beijing, dato che il governo cinese detiene  1.3 trilioni di dollari in securities statunitensi, una cifra che val bene il diritto di parola nel merito.   

Il debito USA è in parte nelle mani di Beijing. Ci si ricorderà in futuro che la prima conseguenza delle politiche di rilancio dell’amministrazione Obama vi sia proprio quella di aver continuato ad far correre il debito pubblico, di un bel trilione di dollari, tanto per cominciare. Scelta che non manca di suscitare legittima e viva preoccupazione nel governo cinese, a sua volta chiamato a fronteggiare previsioni di crescita ridimensionate al 6,5 per cento dalla Banca Mondiale, disoccupazione crescente e conseguente gestione del ritorno di milioni di lavoratori migranti cinesi dalle città alle campagne (20 milioni), crisi dei settori industriali rivolti alle esportazioni e, dulcis in fundo, il serio rischio di medio periodo di non poter  continuare quell’azione, strategica per le autorità cinesi, di modernizzazione dell’intero comparto industriale. Il futuro non sorride a nessuno insomma. Da par suo, la politica di Obama per essere efficace dovrà essere alimentata da altri 3 trilioni di dollari nei prossimi due o tre anni, a patto però che la locomotiva riparta in fretta, cosa di cui molti dubitano. A conti fatti, se si considera che il debito USA in solo anno, è passato da 5,3 trilioni di dollari a 6.6 trilioni di dollari, a cui si debbono aggiungere le passività nominali di Freddie Mac e Fannie Mae che contano da sole 5.3 trilioni dollari a cui è stata data copertura federale, si arriva alla cifra da capogiro di 11 trilioni di dollari di debito, con un passaggio dal 40 per cento nel rapporto debito/PIL,  al 60 per cento.

I Bond USA incominciano a scottare. A questo proposito, Wen Jiabao ha chiesto agli USA “di mantenere il buon credito, di onorare le promesse e di garantire la salvaguardia degli investimenti cinesi”. Insomma un chiaro monito, come a voler dire che anche le politiche di bilancio USA hanno dei limiti, e i nostri investimenti devono essere tutelati da politiche responsabili. E per quanto il governo statunitense possa vantare l’indubbio privilegio di poter ripagare il proprio debito in valuta domestica, privilegio che gli viene garantito dallo status del Dollaro valuta-riserva, ciò non vuol di certo dire che un investimento in titoli statunitensi non debba ancora essere profittevole per essere effettuato. Infatti il timore di Beijing (e non solo) è che l’emissione di ulteriore debito da parte del Tesoro USA, dunque un aumento di offerta di debito, possa indurre gli investitori a richiedere maggiore remunerazione e tassi di interesse più alti per la detenzione delle securities statunitensi, tendenza che, condurrebbe inesorabilmente ad una diminuzione del valore di scambio dei bond del Tesoro USA, di cui Beijing è detentore in abbondanza.  D’altro canto, vero è che il rischio default non pare probabile, ma non è remoto, invece, un qualche rischio di ripudio formale del debito USA.  Ciò spingerebbe probabilmente Geithner, il Segretario al Tesoro di Obama, ad avvalersi di una politica di  inflazione  del debito, che con tutta probabilità, deprezzerebbe beni espressi in dollari USA. In entrambi i casi,  Beijing, e tutti coloro che detengano  beni espressi in dollari USA,  correrebbero il rischio di perderci: gli investimenti cinesi (1.3 trilioni di dollari in bond del Tesoro) perderebbero in valore, mettendo la Banca Centrale Cinese e il Tesoro cinese, impegnati a loro volta in un piano di stimolo biennale da 4 trilioni di yuan ( ovvero 585 miliardi di dollari), in serie difficoltà economico-finanziarie.

L’incognita del protezionismo USA sui prodotti cinesi. Qualora la recessione dovesse avere una durata inferiore ai due anni, è probabile che l’economia cinese  potrebbe tentare di  uscirne in parte indenne, soprattutto se si  considerano i considerevoli investimenti infrastrutturali che il governo cinese può mettere in campo, affiancati dall’azione delle aziende a controllo pubblico (banche comprese) ricche e radicate, e oggi ri-orientate al sostegno dell’economia reale. Qualora, invece, i tempi duri dovessero protrarsi oltre la mitica soglia dei due anni, beh, il governo popolare correrebbe certamente il rischio non solo di dover fronteggiare livelli di disoccupazione ben più alti di quelli odierni, ma dovrebbe fronteggiare una diminuzione degli investimenti diretti esteri in Cina, che di fatto minerebbe la possibilità per Beijing di acquisire a basso costo riserve monetarie estere, volano irrinunciabile per l’acquisizione di tecnologia, quest’ultima pietra angolare del miracolo economico Made in China. Intanto le relazioni commerciali in tempo di crisi tra gli USA e la Cina rimangono in una sorta di limbo. La nenia spesso intonata negli scorsi anni tanto dai Repubblicani che dai Democratici in seno al Congresso, sull’opportunità di sanzionare Beijing per la “manipolazione” della sua politica monetaria ai danni degli USA, attraverso l’innalzamento di un dazio del 27.5 per cento su tutti i beni provenienti dalla Cina e l’imposizione alla governo di Beijing di una rivalutazione dello yuan del 40 per cento, sembrano vivere sotto la cenere. Tanto il governo statunitense che quello cinese sanno che ciò significherebbe ingaggiarsi in una guerra commerciale nel bel mezzo di una crisi mondiale. Nessuno ne trarrebbe profitto, tanto meno il rilancio statunitense.

Per il momento nessuno dei due attori sembra intenzionato a spingersi tanto in là, ma è fuori di dubbio che tutti i motivi di frizione di natura commerciale tra i due governi rimangano, aggravati  se si può dalla crisi, ed altrettanto certo che un giorno essi dovranno essere affrontati e risolti. E’ questo il messaggio politico che Wen Jiabao ha mandato alla Casa Bianca. Par proprio che l’Obamania sia già alla frutta, anche in Cina.