Adesso per i democratici è tempo di “famiglia gay” alla Casa Bianca

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Adesso per i democratici è tempo di “famiglia gay” alla Casa Bianca

21 Maggio 2019

É una “nuova primavera” per i democratici. Un compromesso tra quello che i progressisti statunitensi sono stati sino alla sconfitta di Hillary Clinton e quello che la “new left”, la neo-dottrina ecologista e pauperista della Ocasio Cortez, vorrebbe per il futuro degli asinelli.

Quando Pete Buttigieg ha annunciato che si sarebbe candidato alle primarie democratiche, i politologi hanno pensato che potesse essere arrivato il momentum – termine tanto caro agli analisti americani – del primo omosessuale eletto come presidente degli Stati Uniti. Oggi, a distanza di qualche settimana, lo storytelling costruito attorno a questa figura, così mite, così elegante e spendibile, si è un po’ esteso. Il Time ci ha fatto pure, per non dire “addirittura”, una copertina: se Pete Buttigieg dovesse vincere prima il turno preliminare e poi le presidenziali, a prendere la residenza presso la Casa Bianca sarebbe la prima famiglia gay nella storia degli Stati Uniti.

É un linguaggio politico – comunicativo cui non è raro imbattersi. Qualcuno potrebbe eccepire di non comprendere la straordinarietà della vicenda. Giulio Cesare non abitava presso il 1600 Pennsylvania Ave NW, Washington, DC 20500, ma è stato per un bel po’ di tempo l’uomo più importante del pianeta e, secondo Cicerone pure la “moglie di tutti i mariti”. Dei comportamenti sessuali degli esponenti politici varrebbe la pena fregarsene.

Pete Buttigieg è uno dei pochi leader, tra quelli presenti sul maninstream, a presentare una storia personale marcatamente pro Lgbt. Perché è la sua esperienza, anche personale, a parlare di “nuovi diritti”. C’è un matrimonio con un uomo alle sue spalle, che è ancora in atto e che è dipeso da certa legislazione rirformista. E poi c’è un modo di concepire la fede cattolica, che in Italia definiremmo “adulto”, ma che negli ambienti liberal statunintensi è visto come l’unica meritorio: quello postmodernista. Gli altri competitor, quelle istanze, le possono solo elencare tra le priorità programmatiche o poco più. L’attività onirica del politically correct ha fatto registrare un incremento.

La sfida del primo cittadino di South Bend, in Indiana, è davvero molto proibitiva: il sentiero è tortuoso, gli sfidanti sono avanti, la logica sconsiglia azzardi previsionali e i numeri, per quanto manchi ancora parecchio, raccontano che a sfidare Donald Trump, a conti fatti, sarà Joe Biden, ma quello che il  team propagandistico di Buttigeg e i media neoliberal stanno narrando del sindaco quarantenne funziona. Negli Stati Uniti – fanno presente da più parti – la lente del microscopio è stata posizionata sulla sua figurina dell’album. Pure perché che primarie sarebbero senza un colpo di scena? La divisa d’ordinanza prevede cravatta blu democratico e camicia bianca. Lo spirito è soft. L’umore pare quello di chi sa di dover rincorrere, ma di essere sulla corsia migliore per farlo. Le lingue parlate? Otto. I limiti del multiculturalismo vengono superati dalla conformazione di un uomo che sembra distinguersi per “preparazione”. E questo, oggettivamente, segna un punto sul tabellone del coniuge di Chasten Glezman.

Ma gli elettori americani non hanno più fiducia nei quarantenni. La presidenza di Barack Obama ha lasciato segni indelebili sul quantitativo di credito che gli elettori intendono garantire a quella generazione. Pete Buttigieg appare tutto, fuorché pericoloso del mondo. Magari la sua piattaforma idealistica, per i cocci che rimangono della civiltà occidentale, rischiosa lo è e pure molto. Ne “L’avvocato del diavolo” – forziamo una metafora – Al Pacino alias John Milton glorifica il suo apprendista perché gli avversari non lo sentono arrivare. La “colonizzazione ideologica” – come la chiama papa Francesco – sa essere silenziosa.