Afghanistan in guerra, gli italiani sono sempre più sotto pressione

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Afghanistan in guerra, gli italiani sono sempre più sotto pressione

14 Luglio 2009

L’invio di nuovi soldati in Afghanistan appena deliberato dall’Amministrazione Obama è destinato ad incidere significativamente anche sui militari italiani schierati in quel teatro. Alcuni effetti del nuovo corso sono già visibili. Altri si materializzeranno certamente nelle prossime settimane, mano a mano che il generale Stanley McChrystal articolerà in misure concrete la strategia adottata dal Comando centrale (Cencom) americano, responsabile di una vasta area che va dal Marocco al Pakistan.

Clima sempre più arroventato
Una prima vistosa conseguenza riguarda l’intensificazione degli scontri che coinvolgono i soldati italiani, specialmente nelle Province di Farah e Baghdis. È un fenomeno riconducibile in buona parte alla maggior pressione esercitata dai britannici e dagli statunitensi nel vicino Helmand, di cui è stata una manifestazione anche il recente avio-assalto condotto su Babaji dal Black Watch, uno dei più blasonati reggimenti di Sua Maestà.

Stando a quanto ha lasciato intendere il generale David H. Petraeus, a capo del Cencom, durante un suo intervento presso il Center for a New American Security lo scorso 11 giugno, proprio il Sud e l’Est dovrebbero divenire il centro di gravità della campagna alleata di questa estate. È lì infatti che le infiltrazioni delle milizie talebane, del network degli Haqqani e del braccio armato dell’Hibz-i-Islami di Gulbuddin Hekmatyar continuano a creare i maggiori problemi alla sicurezza della popolazione e dei contingenti alleati.

Nell’intento di favorire la separazione dei civili residenti in queste aree sfortunate dalla guerriglia che le infesta, i vertici militari statunitensi hanno deciso saggiamente, seppur tardivamente, di limitare il ricorso ai bombardamenti aerei. Ma questa scelta costringerà gli uomini sul terreno ad esporsi di più. E i rischi a loro carico cresceranno sensibilmente, anche perché i movimenti armati ostili al governo di Kabul e alle forze internazionali che lo appoggiano reagiranno al tentativo alleato di dividerli dalla popolazione locale moltiplicando i propri sforzi.

Come ha ammesso lo stesso Petraeus, l’obiettivo di assicurare una protezione credibile al grosso degli afgani non potrà comunque essere raggiunto. Lo impedirà la frammentaria distribuzione dei centri abitati sul suolo afgano: oltre 40mila villaggi spesso composti da poche case di fango, ai quali sarà impossibile offrire il presidio armato continuo di cui avrebbero bisogno per essere protetti dalla guerriglia. Manca purtroppo in Afghanistan un luogo chiave per un successo strategicamente decisivo: un agglomerato urbano che abbia un’’importanza politica e simbolica analoga a quella che ha, ad esempio, Bagdad in Iraq.

Verso la prova di forza
I soldati americani e i loro alleati dovranno conseguentemente scendere a compromessi, difendendo dalle alture gli abitati maggiori ed accettando la prospettiva di sostenere cicli operativi di combattimento molto più lunghi e violenti di quelli sopportati finora, senza alcuna certezza sul risultato finale.

Il Comando centrale americano ritiene che nei prossimi mesi si svolgerà una prova di forza cruciale. Proprio per questo, mano a mano che le nuove truppe affluiscono, le forze atlantiche ed alleate passano all’offensiva. Nel solo Helmand ci sono ormai almeno 12.000 soldati americani e 9.000 britannici. E forze statunitensi stanno giungendo anche nella parte più meridionale del quadrante occidentale dell’Afghanistan, sulla quale si estende ormai una propaggine del cosiddetto Operation Box Tripoli: una grande riserva “di caccia” esclusiva, dalla quale i militari americani hanno voluto allontanare tutti gli altri contingenti occidentali presenti nell’area, per poter agire in modo più efficace e tempestivo contro ogni minaccia.

Di questi sviluppi, il ministero della Difesa italiano ha tempestivamente preso atto, abbandonando la base avanzata di Delaram e trasferendo più a nord le altre unità situate nelle zone attigue, anche per non far pagare ai nostri militari le conseguenze di eventuali eccessi nell’uso della forza da parte dei nostri alleati. Ciò non vuol dire che le unità del nostro esercito eviteranno il combattimento. Tutt’altro. Il nostro contingente ha obiettivamente cambiato postura da qualche tempo, conducendo pattugliamenti offensivi e partecipando anche alle operazioni dirette alla cattura dei più pericolosi esponenti della guerriglia.

Questa svolta non riflette soltanto la volontà del nostro Paese di adeguarsi ad una nuova strategia che non è stata ancora compiutamente declinata in tutti i suoi aspetti, ma è altresì frutto di una precisa scelta politica del governo, che ha utilizzato ancora una volta l’impegno militare in Afganistan per rinsaldare i rapporti bilaterali con Washington. Non è la prima volta che succede. Accadde infatti già nel 2003, quando l’Italia avviò l’Operazione Nibbio nella Provincia di Khost a titolo di compensazione per la mancata partecipazione ad Iraqi Freedom, e più recentemente durante la seconda esperienza di Romano Prodi a Palazzo Chigi.

Il maggiore impegno delle forze italiane
L’intensificazione dello sforzo italiano non implicherà soltanto il già programmato aumento delle truppe disponibili combat ready, e del parco dei mezzi a loro disposizione, ma altresì un apporto maggiore alla formazione delle forze di sicurezza afgane: a profitto non soltanto dell’esercito di Kabul, che già si avvale dei nostri consiglieri militari, ma anche della debole e screditata polizia nazionale, il cui rapido potenziamento è considerato un fattore critico per offrire alla popolazione pashtun una protezione adeguata dal crimine organizzato e dalle intimidazioni della guerriglia. Potrebbero arrivare in Afghanistan fino a duecento carabinieri in più: un’offerta aggiuntiva rispetto ai rinforzi previsti nello scorso aprile, maturata in occasione della recente visita di Silvio Berlusconi alla Casa Bianca, anche se forse inferiore alle aspettative dell’amministrazione americana.

A quanto si apprende, la prosecuzione dell’intervento italiano in Afghanistan costerà altri 339 milioni di euro dal 30 giugno sino alla fine dell’anno in corso. Una cifra elevata che sembra confermare quanto diversi addetti ai lavori sostengono da qualche tempo: temendo il peggio, l’Italia potrebbe essere in procinto di inviare a Herat e nella capitale quanto di meglio dispongano le sue forze armate, compresi i nuovi blindati Freccia, i fucili d’assalto di ultima generazione e i primi elementi net-centrici di cui si siano dotate le nostre unità terrestri. La speranza è che il nuovo approccio annunciato da Petraeus, che dovrebbe porre la sicurezza della popolazione locale al centro delle operazioni, inizi rapidamente a produrre gli attesi effetti positivi.

Germano Dottori è Cultore di Studi Strategici alla Luiss-Guido Carli di Roma e consulente parlamentare