Afghanistan, la Nato è in cattive acque. Obama saprà dare la svolta?

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Afghanistan, la Nato è in cattive acque. Obama saprà dare la svolta?

24 Gennaio 2009

Secondo l’ultimo rapporto del Congressional Research Service (CRS) per il Congresso Americano, a fine 2008 erano schierate in Afghanistan 44.200 truppe della missione ISAF guidata dalla Nato, con il triplice compito assegnato dalle Nazioni Unite di garantire la sicurezza nel paese, disarmare le milizie locali, addestrare le forze armate e la polizia afgane. Con la progressiva estensione della missione da Kabul all’intero territorio afgano sono aumentate negli scorsi mesi anche le vittime alleate di attacchi da parte della guerriglia talebana. In tale difficile contesto è a rischio la solidarietà tra gli alleati, la capacità di sostenere l’onere delle operazioni e la coesione dell’Alleanza Atlantica sulla strategia per stabilizzare l’Afghanistan. 

Per quanto riguarda la solidarietà tra gli Alleati, il problema principale è costituito dai caveat imposti da diversi governi dell’Europa continentale ai loro contingenti nazionali, in particolare i divieti di partecipare ad azioni di combattimento e di essere schierati in zone diverse da quelle originariamente assegnate. Quanto pesino questi caveat è testimoniato dall’episodio di Meymayeh. Quando nel 2006 il Provicial Reconstruction Team (PRT) di questa provincia è stato attaccato dai talebani, il personale scandinavo ha chiesto aiuto ma le forze Nato più vicine al PRT avevano dei caveat nazionali che impedivano loro di partecipare a operazioni di combattimento. Perciò gli uomini Nato sotto attacco hanno dovuto aspettare ore perché delle truppe britanniche venissero avio-trasportate dal sud dell’Afghanistan e respingessero i talebani. Dopo un episodio del genere, quale senso di solidarietà possono provare i militari scandinavi per gli alleati della Nato rimasti al sicuro nelle vicine caserme mentre loro erano sotto il fuoco nemico? Solo nel 2008, dopo dure polemiche sull’impegno militare di paesi come Spagna, Italia e Germania, gli alleati della Nato hanno concordato che ove necessario tutti i contingenti possano essere impiegati in combattimento in ogni parte del Afghanistan. 

Strettamente legata alla questione della solidarietà vi è quella del “burden sharing”, cioè della ripartizione dello sforzo bellico in termini di uomini e mezzi. Attualmente il 54% delle forze ISAF provengono da Stati Uniti e Gran Bretagna, mentre il totale dei contributi di Germania, Francia, Canada, Italia e Polonia si ferma al 30%, e trenta tra alleati e partner minori forniscono il restante 16%. E’ evidente come la ripartizione degli oneri sia sbilanciata a sfavore degli angloamericani, che si sono duramente scontrati con gli Alleati su quello che ai loro occhi è un vero e proprio test per l’efficacia dell’Alleanza. Il problema principale del “burden sarin” è la volontà politica dei governi, perché nel complesso i membri della Nato possono schierare in teoria 3 milioni di soldati ma ne hanno inviati in Afghanistan poche decine di migliaia. Nel vertice Nato tenutosi a Bucarest la scorsa primavera sono stati fatti passi avanti anche in questo senso, ma il problema rimane. Inoltre, la missione in Afghanistan ha dimostrato anche un allarmante problema di capacità militari in seno all’Alleanza. Alcune analisi pubblicate dal prestigioso centro studi britannico Chatham House hanno sottolineato come molti Alleati abbiano carenze strutturali in fatto di truppe “expeditionary”, cioè capaci di operare lontano dal territorio nazionale, e manchino di capacità importanti in merito a intelligence, comunicazione, trasporto strategico sulla media e lunga distanza. L’effetto di una spesa in Difesa per molti membri Nato inferiore al 2% del PIL si sta concretizzando nella seria difficoltà dell’Alleanza di sopportare un impegno militare consistente per un periodo prolungato.

Il terzo elemento a rischio in Afghanistan è la coesione stessa della Nato. Sebbene gli Alleati condividano gli obiettivi finali della missione c’è stata una crescente divergenza in merito alle strategie per raggiungerli. Ad esempio, alcuni paesi come la Germania credono che si possa avere successo solo con uno sforzo di ricostruzione economica e criticano le dure operazioni di contro-guerriglia condotte da Stati Uniti e Gran Bretagna. Inoltre non c’è accordo su come contrastare il narcotraffico che finanzia la guerriglia talebana, né sull’ipotesi di negoziare con frange “moderate” dei talebani avanzata dai britannici. L’accordo sulla “ISAF Strategic Vision” raggiunto nel vertice di Bucarest fornisce alla missione Nato alcune linee guida condivise, ma tace su diverse questioni su cui rimane il disaccordo tra gli alleati.     

Se l’andamento attuale delle operazioni in Afghanistan solleva tali gravi problemi, un eventuale fallimento della missione ISAF sarebbe ancora più pericoloso per il futuro dell’Alleanza. Se la Nato si ritirasse dall’Afghanistan senza lasciare un paese relativamente stabile, decentemente democratico e in grado di contrastare autonomamente le attività dei gruppi talebani, la sua credibilità verrebbe seriamente danneggiata: la Nato perderebbe gran parte della propria capacità di deterrenza verso minacce esterne se delle milizie armate solo di razzi e kalashnikov sconfiggessero un’alleanza costruita per fermare la superpotenza sovietica, e dimostratasi incapace di impegnare le proprie truppe out-of-area abbastanza tempo per vincere una guerra. 

Oltre alla perdita di credibilità esterna, secondo la stragrande maggioranza degli analisti molto più pericolosa sarebbe la perdita di fiducia nell’Alleanza da parte dei suoi principali membri. Infatti, da un lato gli Stati Uniti giudicherebbero gli europei incapaci di fornire un contributo militare valido e quindi poco rilevanti come alleati, per di più se come si sta verificando gli americani avranno successo da soli nello stabilizzare l’Iraq. D’altro canto, l’Europa considererebbe gli americani incapaci di negoziare obiettivi e strategia comuni e quindi alleati con cui è impossibile schierarsi. Di conseguenza, le missioni Nato in corso nei Balcani e altrove ne sarebbero indebolite, l’allargamento e le partnership congelati, l’Alleanza perderebbe di rilevanza indebolendo sia Stati Uniti che Europa in un mondo in cui altre potenze non democratiche stanno emergendo (Cina) o riemergendo (Russia). 

Di fronte a tale prospettiva, che impatto avrà la nuova presidenza Obama? Il neo presidente ha fatto dell’Afghanistan la sua priorità di politica estera in campagna elettorale, ha ribadito anche nel discorso inaugurale che gli Stati Uniti sono in guerra, e si appresta a inviare 20.000 truppe di rinforzo nel paese asiatico. Secondo quanto affermato da autorevoli analisti come Robert Kagan (Carnegie Endowment), Robin Niblett (Chatham House) e Charles Grant (CER) durante un convegno alla London School of Economics, è verosimile che Obama non domanderà agli alleati più truppe da combattimento, che l’opinione pubblica europea è restia a inviare. Piuttosto chiederà più mezzi, più addestratori militari, più personale civile e più aiuti economici, in cambio di una revisione della strategia complessiva in Afghanistan che metta al primo posto la ricostruzione del paese, rendendo così politicamente fattibile per i governi europei contribuire maggiormente allo sforzo alleato. Un’azione del genere di per sé non sarebbe risolutiva per la situazione della Nato in Afghanistan, ma né Obama ne gli alleati europei sembrano in grado di cambiare radicalmente i fondamenti della propria politica estera, e d’altro canto tutte le lunghe marce cominciano con un primo passo.