Afghanistan, l’Italia ora è pronta a maggiori responsabilità

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Afghanistan, l’Italia ora è pronta a maggiori responsabilità

23 Maggio 2008

Dopo le dichiarazioni dei giorni scorsi del nostro Ministro degli Esteri, Franco Frattini, finalmente in Italia si torna a parlare di Afghanistan. Le parole del Ministro, che ha aperto alla possibilità di rivedere i caveat che oggi legano le mani ai nostri militari, sono importanti per diversi motivi. Innanzitutto a livello internazionale sono un segnale forte e preciso: l’Italia ha nuovamente un governo che pone la lotta al terrorismo al centro della propria politica estera. E’ finito il tempo degli equidistanti e del relativismo etico, il governo Berlusconi non ha paura di indicare chiaramente che ci sono i “buoni” ed i “cattivi”, e che l’Italia non esita a schierarsi dalla parte dei primi contro i secondi. I nostri amici occidentali sanno che l’Italia è nuovamente pronta a prendersi le proprie responsabilità e, soprattutto, ha la volontà politica per portarle fino in fondo. Niente più dialogo con i terroristi di Hamas, niente più passeggiate a braccetto con gli assassini di Hezbollah, niente più tolleranza con Teheran. Il governo italiano è pronto ad impegnarsi a fondo per liberare l’Afghanistan dai terroristi di Al Qaeda e renderlo definitivamente un paese libero e democratico. 

E’ dal 2006, in effetti, che il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, chiede che il numero delle truppe della missione ISAF sia aumentato e, soprattutto, che siano eliminati tutti quegli impedimenti politici che non consentono alle truppe di alcuni paesi, soprattutto Italia, Spagna e Germania, di intervenire nelle aree ad alto rischio, di avere un ruolo attivo nelle missioni più pericolose, e perfino di  muoversi al di fuori di certe zone considerate “sicure”. Ma non è stando a guardare che si vincono le guerre. Queste limitazioni potevano avere un senso fino al 2005, prima della rinascita del pericolo talebano, ma da allora è parso chiaro che per vincere la guerra contro il terrorismo, non basta l’impegno nella ricostruzione del paese, ma è necessario garantire innanzitutto sicurezza e stabilità. L’idea che lo sviluppo economico sia sufficiente a convincere la popolazione ad abbracciare la libertà e la democrazia (senza le quali non può esserci una sana crescita economica) rimane sempre valida, ma nessuna attività imprenditoriale può nascere e crescere se non sono garantite la sicurezza, la proprietà privata e i diritti umani. 

Continuando su questa strada si rischia di allungare i tempi necessari alla stabilizzazione del paese e di rendere vani i tanti successi conseguiti. Inoltre questo atteggiamento pone un problema importante soprattutto nei confronti degli altri paesi impegnati nella missione (in particolare degli americani, inglesi, australiani e canadesi), che si devono fare carico praticamente da soli di presidiare le zone calde, a più alto rischio di scontri, rendendo sproporzionata la ripartizione dei rischi e delle perdite. Tutti gli elementi che compongono la missione dovrebbero essere in grado di partecipare allo stesso modo alle operazioni congiunte, sulla base di regole di ingaggio comuni a tutti i paesi limitate solo dalle capacità di ciascuno, non da assurdi veti politici. Per l’Italia, in più, il fatto di rimuovere questi limiti è particolarmente importante alla luce del prossimo disimpegno da Kabul e il conseguente maggiore impegno nella zona ovest del paese, lungo l’asse Herat-Farah, al confine con l’Iran, dove negli ultimi anni sono avvenuti frequenti ed intensi scontri. 

Ma liberare le truppe dai caveat potrebbe non bastare. I generali impegnati sul campo, infatti, denunciano da tempo la mancanza di soldati. Persino gli Stati Uniti, inizialmente, avevano optato per un basso profilo, impegnando relativamente pochi uomini, anche allo scopo di liberare risorse per la guerra in Iraq. Tuttavia, oggi in Afghanistan sono dispiegate un numero di truppe minore che in Iraq, pur avendo quest’ultimo una popolazione decisamente inferiore distribuita su un territorio molto meno esteso. Gli effetti di un incremento (il famoso surge) delle truppe di terra in Iraq si sono visti, ora è tempo di replicare quei successi anche in Afghanistan. Aumentare i boots on the ground consentirebbe di applicare una strategia di counterinsurgency più efficace e di ridurre al contempo l’esigenza di interventi aerei che provocano un maggior numero di vittime civili. Ma la presenza sul terreno è fondamentale soprattutto perché infonde nella popolazione quel senso di sicurezza necessario affinché la  popolazione civile trovi il coraggio di partecipare direttamente alla ricostruzione del paese.

Naturalmente i problemi non sono solo questi. Bisognerà rimuovere l’ostacolo rappresentato dalla mancanza di coordinamento tra i diversi paesi che contribuiscono alla missione, ed occorrerà incrementare l’impegno nell’addestramento dell’esercito e soprattutto delle forze di polizia (l’Afghanistan ha un grande passato di combattimenti militari, ma scarsa esperienza nel mantenimento dell’ordine pubblico e nelle operazioni di polizia). Inoltre sarà necessario indurre il nuovo governo pachistano a non abbassare la guardia, anzi, ad impegnarsi maggiormente nei confronti degli islamici radicali che si rifugiano e, di fatto, controllano oggi diverse zone del confine (più virtuale che reale) tra Afghanistan e Pakistan.

In definitiva, rimane ancora molto lavoro da fare, ma è importante che l’Italia abbia deciso di dare un segnale politico forte, un esempio che potrebbe essere seguito anche da altri alleati. D’altra parte l’Occidente non può permettersi di perdere questa importante guerra perché in Afghanistan non è in gioco solo la sorte del paese, è in gioco il futuro di tutti noi.