Afghanistan, per gli inglesi non è il momento di trattare con i Talebani

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Afghanistan, per gli inglesi non è il momento di trattare con i Talebani

05 Agosto 2009

In una delle sue ultime conferenze stampa, David Miliband ha ipotizzato la necessità, da parte della Coalizione in Afghanistan, di dialogare con alcune frange dei talebani. Il ministro degli esteri inglesi ha dichiarato che sarebbe necessario costruire un “insediamento politico inclusivo” che includa gli ex insorgenti che potrebbero essere persuasi ad abbandonare la violenza. Lo stesso Miliband ha sostenuto una distinzione, che si va facendo sempre più frequente, tra i “falchi più ideologizzati”, ovvero i jihadisti, e i gruppi più moderati che, sebbene siano ancora oggi coinvolti nella insorgenza, potrebbero essere coinvolti all’interno di un “processo democratico”.

Il discorso di Miliband fa parte di un giro di vite deciso dal governo americano sull’Afghanistan. L’International Development Secretary, Douglas Alexander, ha dichiarato al popolare “Today programme” che concentrarsi sul dialogo è stata una delle lezioni che la Gran Bretagna ha appreso in Irlanda del Nord: “Ritengo che la gente sappia da esperienze come quelle in Irlanda del Nord che è necessario mettere sotto pressione i Talebani con mezzi militari, ma allo stesso tempo tener presente che potrebbe intrapreso un cammino politico che segua quello militare”; le operazioni militari, fa notare lo stesso Alexander, “sono solo una parte della soluzione”.

Ma sia Miliband che Alexander dimenticano ciò che ha davvero dimostrato l’esperienza in Irlanda del Nord e cioè che c’è una sostanziale differenza tra dialogare con i terroristi che sono sulla cresta dell’onda e farlo con quelli che invece stentano a tenersi a galla. Così la strategia di sostenere il dialogo coi Talebani dopo che la missione britannica in Afghanistan ha subito seri danni, e dopo che in numerose occasioni i media abbiano dedicato ampio spazio alla possibilità del ritiro, rischia di mandare un messaggio sbagliato.

L’amministrazione britannica, assieme a una buona parte del Dipartimento della Sicurezza, è stata a lungo inebriata dalla “Lezione dell’Ulster”. I “mandarini” della diplomazia inglese finiscono col trattare tutti gli episodi di violenza del mondo offrendo sempre la stessa lettura basata sulle caratteristiche dell’esperienza anti-IRA, in cui i terroristi di ieri diventano gli uomini di stato di domani. Durante quest’anno, il Dipartimento degli Esteri britannico ha ripreso contatti con Hezbollah e alcuni deputati inglesi hanno invitato Hamas a partecipare in videoconferenza ad alcune discussioni avvenute a Westminster. In entrambi i casi, l’esempio dell’Irlanda del Nord è stato citato come una fonte d’ispirazione per la diplomazia.

Ma quello che è accaduto davvero nell’Ulster è molto più complesso di quello che vogliono farci credere. Le scadenze erano ovunque e il dialogo con l’IRA si è dimostrato spesso controproducente – perché minava il fronte moderato e spingeva i terroristi a credere di avere l’iniziativa. E’ stato soltanto negli Anni ‘90, dopo quasi tre decenni di violenze, che sono state meticolosamente trovate le condizioni giuste per favorire il dialogo. La verità è che tutto ciò avvenne solo dopo che una martellante campagna sulla pubblica sicurezza aveva costretto l’IRA in una posizione di stallo.

A cosa possono servirci queste ultime osservazioni? Da una parte, sono tutti elementi della solita vecchia sceneggiatura: Miliband continua a sostenere l’autorità morale della Gran Bretagna in un modo che non può non evocare la “politica estera etica” di Robin Cook. Dall’altra parte, leggendo tra le righe del discorso di Alexander, sembra possibile credere che stia cominciando ad imporsi una volontà che porti verso un approccio molto più pratico e realistico di affrontare l’insorgenza afgana.

Fino a poco tempo fa, il dialogo era visto come un’alternativa al combattere – una sorta di benigno palliativo in cui la ragione trionfa sul macismo caratteristico dell’era Bush. Ma nelle sue ultime incarnazioni, i sostenitori dell’esempio-Ulster sembrano più preparati ad ammettere che dialogare e combattere possono essere considerate parti di una stessa strategia. Un ramoscello d’olivo acquista più senso solo dopo l’operazione “Panther’s Claw”.

Insomma quello che è davvero cambiato non è l’operato della diplomazia di Sua Maestà ma lo sfondo militare del conflitto, con la recente “surge” delle truppe della Coalizione, in particolare nella Valle dell’Helmand. L’influenza delle idee di David Kilcullen è sempre più evidente nella strategia di contro-insorgenza degli americani – più truppe, accanto a una maggiore sensibilità verso gli scenari composti dagli accordi e dai confini stabiliti tra e con le tribù locali.

Riguardo alla situazione afgana, un “Risveglio” come nel caso dell’Anbar non è del tutto escluso. Ma è utile ricordare che gli Stati Uniti hanno ottenuto i loro risultati migliori con il “dialogo” in Iraq solo dopo che l’aumento delle truppe era stato contrastato in malo modo. Al contrario, lo stanziamento di truppe britanniche nella “camera sul retro” di Bassora non è stato altro che un misero fallimento, tanto da portare la città a dover essere “ri-liberata”: tutt’altro dall’essere considerato un modello per l’Afghanistan.

Si dice spesso che non esiste una soluzione militare per l’Afghanistan, ma allo stesso tempo non ci sarebbe una soluzione senza i militari. L’unica cosa sicura è che se la Coalizione sceglierà la via del negoziato, dovrebbe farlo da una posizione di forza. 

Tratto da The Spectator

Traduzione di Tommaso Menna