Africa, il continente dalla guerre infinite e misconosciute
22 Maggio 2010
di Anna Bono
Quest’anno un terzo dei paesi africani, 17 in tutto, celebrano i 50 anni d’indipendenza. Uno di questi è il Camerun dove il 18 e 19 maggio, nell’ambito dei festeggiamenti voluti dal presidente Biya, si è svolta una conferenza intitolata ‘Africa21,, alla quale hanno partecipato numerosi capi di stato e di governo. Tutti i convenuti, nessuno escluso, hanno illustrato un bilancio molto positivo della situazione del continente e delle sue prospettive: "non è soltanto un vento di cambiamento che soffia sull’Africa – ha dichiarato la tanzaniana Asha-Rose Mirigo, vice del Segretario Generale dell’ONU– si tratta di un vero e proprio uragano. Il continente ha tante ragioni di essere fiero di sé: per la prima volta nella storia accoglie i Mondiali di calcio…." Le ragioni dell’ottimismo derivano dai dati demografici che parlano di una popolazione prevalentemente giovane, una risorsa straordinaria che attende di essere messa a frutto, e dalle immense ricchezze naturali di cui il continente dispone: il 50% di tutto l’oro del pianeta, il 90% del cobalto, il 40% delle risorse idroelettriche. Ma il "vento di cambiamento" si deve soprattutto all’epoca di pace apertasi finalmente dopo tante tragedie: "nel passato l’Africa è stata scossa da numerosi conflitti armati – ha ricordato il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Jean Ping – adesso le speranze di pace sono più grandi e ciò fornisce prospettive di sviluppo incoraggianti". Uno sguardo al continente restituisce però un’immagine assai meno confortante di quella proposta dai suoi leader. Gli scenari di guerra attuali impensieriscono per la possibilità che si estendano e che si prolunghino nel tempo: in Sudan, ad esempio, il Darfur in guerra dal 2003 è tutt’altro che prossimo alla pace, nonostante gli accordi siglati alla vigilia delle elezioni di aprile, e in Somalia, dove si combatte ormai da quasi 20 anni, ancora non si prospetta una soluzione politica praticabile. Altri focolai di guerra inoltre si individuano dove i governi mancano di legittimazione per essere al potere grazie a colpi di stato o a elezioni vistosamente invalidate dai brogli. Ma ad allarmare più ancora è il fatto che quasi tutti gli stati africani sono teatro di conflitti a bassa intensità, localizzati ed eventualmente intermittenti, ai quali si deve uno stillicidio incessante di vittime. Come nei millenni trascorsi, le comunità che tuttora praticano economie di sussistenza combattono per contendersi sorgenti, pascoli, boschi, terreni coltivabili e per integrare gli scarsi prodotti del loro lavoro razziando bestiame, raccolti, attrezzi e suppellettili: ancora, come in passato, una pelle di capra o una zappa valgono la pena di un agguato, qualche cesto di mais o alcuni capi di bestiame meritano di incendiare o distruggere un villaggio, uccidendone e disperdendone gli abitanti, e di rischiare la vita per rubarli o per difenderne la proprietà. E poi il mancato sviluppo economico e le lunghe, atroci guerre tribali per il potere hanno creato ovunque moltitudini di dropout. Sono le masse descritte da Ahmadou Kourouma, uno dei più grandi scrittori africani, nel suo profetico capolavoro: Aspettando il voto delle bestie selvagge. Reduci di guerra, molti dei quali ex bambini soldato, abituati al gusto di incutere terrore sui più inermi dei loro connazionali, privi di un mestiere e sradicati, invece di consegnare le armi si uniscono in bande che vivono razziando villaggi e interi quartieri urbani e, quando possono, controllando l’accesso a miniere e giacimenti. Ad essi si aggiungono folle di giovani scolarizzati, ma a mala pena capaci di leggere e scrivere, che pretenderebbero un posto e un reddito da impiegati e che, frustrati, scelgono a loro volta le armi. I padri hanno combattuto per l’indipendenza e per ideali di libertà e giustizia: o così sostenevano mentre sterminavano le etnie rivali con l’obiettivo di impadronirsi dell’apparato statale. Avevano comunque delle prospettive e dei progetti personali di affermazione politica e sociale. L’aspirazione dei figli, i dropout attuali, è vivere di rapine e violenza negli interstizi della società, liberi dalle tradizioni tribali del passato e dalle nuove regole introdotte con le indipendenze: irresponsabili e irriverenti.