Agnese, Michelle e D’Alema

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Agnese, Michelle e D’Alema

24 Ottobre 2016

Abbiamo ancora tutti negli occhi le fotografie della trasferta di Renzi e Co. a casa di Obama. Volenti o nolenti siamo stati resi partecipi di ogni istante della gita negli Stati Uniti. L’evento di dimensioni cosmiche è stato documentato in ogni sorta di dettaglio. Si è tentato di esaltare persino la classe (discutibilissima!) degli abiti oro e argento con cui le signore Obama e Renzi hanno voluto onorare l’occasione, e che stonavano con le facce di bronzo dei rispettivi mariti. 

La stessa classe, per intenderci, con cui Renzi ha fatto in modo che la moglie potesse accompagnarlo a Washington. Di rivendicazioni sociali non siamo esperti. Anzi siamo allergici. Non ci interessano il moralismo o il “legalismo” diventati paravento dietro cui spesso si mascherano delle battaglie politiche. Eppure ci siamo interrogati, crediamo lecitamente, sull’assenza dal lavoro della professoressa LandiniRenzi. Fino a che punto è legittima? Ci risulta che, come nel caso della signora Renzi, per l’anno di prova dei docenti non siano previsti tutti e sei “giorni di permesso”.

Stupisce il fatto che glieli abbiano regalati tutti insieme. Evidentemente si è trattato di una tale buona causa, esposta per di più con un perfetto savoir fair, da risultare una di quelle richieste a cui è impossibile dire no. Si tratterà di doti che il nostro caro premier sa, evidentemente, tirar fuori solo in determinate occasioni e di cui mai siamo stati testimoni, abituati come siamo alla volgarità con cui usa le sue argomentazioni antipolitiche e populiste. Un vero maestro dell’arroganza nell’agone politico, e che sta dando il meglio di sé, soprattutto nella campagna elettorale per il referendum.

Slogan stereotipati i suoi, recitati con una retorica piuttosto mediocre. “Chi è per il ‘no‘ al referendum vuole conservare la poltrona”, la tipica frase da bar. Perché “uno, due, e il terzo (parlamentare) via, a casa …”, con tanto di sceneggiata mimica. Quello a cui Renzi sta abituando l’Italia è un modo di fare rozzo, volgare. Si è ispirato, ma in maniera fallimentare, al modo di fare politica dell’amico Barack: marketing emozionale e sensazionalistico.

La cena che Obama ha offerto ne è stato l’esempio calzante. Il presidente (ancora per pochissimo) degli Stati Uniti ci ha tenuto a fare di Matteo Renzi una specie di icona. Il succo del discorso? Avete un premier “giovane e bello”, dal santo passato da scout, per giunta appassionato di twitter, che volete di più? È negli atteggiamenti che Matteo sembra essersi conquistato la fiducia e la simpatia dell’America. Atteggiamenti che valgono l’appoggio alle sue riforme. E poco male se, probabilmente, il presidente degli Stati Uniti non ha studiato né la riforma, né la Costituzione italiana.

Ma la verità è che Obama ha già avuto qualcosa in cambio dal nostro Matteo, che ha liquidato le obiezioni di D’Alema con una buona battuta: “Ognuno ha i suoi endorsement: c’è chi si tiene D’Alema, io mi tengo Obama”. Nelle battute, si sa, Matteo è bravo e veloce. Solo che D’Alema oggi, a differenza di Obama, non pretende che l’Italia sostenga il Ttip (il famoso trattato commerciale transatlantico), né che invii uomini sui fronti caldi che interessano agli Usa, né che il nostro paese vada contro i propri interessi economici, come con le sanzioni antirusse, per fare invece quelli degli americani.

Se l’economia italiana non accenna a ripartire, se il governo assomiglia molto di più ad un comitato di dilettanti allo sbaraglio, se la disoccupazione è sempre uguale, se in Europa non contiamo nulla, e se il Paese è alla deriva, alla fine non ci salverà l’interessato sorrisetto paternalistico di Obama. Ma possiamo essere contenti: il “ducetto di Rignano sull’Arno” ci ha garantito che le riforme cambieranno la storia.