
Al centro del centrodestra: originali sì, equidistanti mai

03 Novembre 2019
di Asterix
C’è spazio al centro del centrodestra? Con “Giuseppi” che mostra ogni giorno di più i suoi limiti, Renzi che non decolla, la decadenza di Forza Italia che avanza impetuosa, l’esistenza di un terreno incolto è un’evidenza, quasi un luogo comune. Chi volesse cimentarsi col compito di ararlo, però, farebbe bene a non fermarsi al dato politologico e considerare gli aspetti meno scontati del problema, che hanno a che fare più col cuore (del quale la politica non può fare a meno, soprattutto quando non si limita a gestire l’esistente) che con la ragione.
Un tempo, per fede ideologica, s’era disposti ad attendere una vita intera e persino a trascorrerne una parte nelle patrie galere. Per quanto questa attitudine caratteriale non mi dispiaccia affatto, debbo ammettere che in ciò vi era un tantino di esasperazione esistenziale, che i moderati possono ritenere non consona al loro temperamento. Oggi si sta esagerando nel senso inverso. Le scelte di appartenenza politica dei moderati sembrano determinate da una sorta di borsino quotidiano. Così, mentre solo dieci giorni fa nel ceto politico il “renzismo” andava per la maggiore, dopo l’Umbria la prospettiva di un facile sfondamento della destra ha portato tanti “centristi” a guardare dal lato vincente del campo da gioco: meglio essere in una compagine più piccola ma legata alla coalizione che si candida a un duraturo ruolo di governo, che in una più ampia compagnia, guidata da un leader certo più spigliato ma assai spregiudicato, destinato, a quanto pare, a condividere la sorte declinante della parte sinistra che appoggia il governo di “Giuseppi”, ovvero dell’uomo che visse due volte (e non è ancora finita…).
Ecco: per prima cosa bisognerebbe diffidare di questi calcoli di bottega, che portano a ignorare le ragioni vere per le quali le posizioni più moderate e razionali oggi sono in crisi, e rischiano di far degradare la rifondazione di un’area liberal-conservatrice a costruzione di una “quarta gamba” qualunque, già zoppa in partenza.
Il fatto è che se i partiti più estremi (soprattutto a destra) sono oggi più appealing, non è per il destino cinico e baro, non dipende solo dal fatto che essi hanno leader giovani e mediatici, e nemmeno dipende del tutto dalla circostanza che si siano impossessati del tema dell’immigrazione: uno dei pochi argomenti oggi inteso allo stesso modo al Nord così come al Sud.
Tutto ciò ha assai di più a che fare con la fragilizzazione di settori sempre più ampi della società italiana, impauriti e incerti verso il futuro, sia esso prossimo che remoto. Mi riferisco alle conseguenze di una deindustrializzazione che guadagna territori sempre più ampi, ai commercianti che non abbassano le serrande e che in cambio vengono definiti evasori fiscali in un documento ufficiale del governo, alle periferie delle grandi città in stato di progressivo abbandono, agli abitanti delle zone interne che non hanno voglia o forza di emigrare sulla costa, ai giovani costretti a espatriare per necessità e non per scelta, agli anziani impauriti di fronte alla prospettiva che la loro vita si allunghi e possano rimanere soli, ai quali Grillo vorrebbe togliere pure il voto.
Ai fragili del terzo millennio la sinistra non sa più parlare. A loro, con tutto il rispetto, non può bastare una polemica politicamente corretta sulla commissione proposta dalla senatrice Segre.
Si potrebbe obiettare: nemmeno Salvini e Meloni offrono però competenze e soluzioni all’altezza dei problemi. Può anche essere vero ma quantomeno essi mostrano, col linguaggio del corpo ancor prima che con argomentazioni coerenti, di comprendere il disagio dei deboli e di detestare il “radicalchicchismo” degli avversari.
Chi volesse rifondare il centro del centrodestra dovrebbe partire da queste evidenze: partecipare le paure e il bisogno di sicurezza di settori sempre più ampi dell’elettorato, qualificarsi sul terreno delle soluzioni e della competenza, dimostrare coi fatti di meritare la fiducia delle persone. Dovrebbe, insomma, sfidare gli alleati sul loro stesso terreno, senza spostarsi su quello che gli avversari di sinistra arano già con esiti sconfortanti.
Nessun dubbio: in questa prospettiva c’è il rischio di differenziarsi troppo debolmente dai ben più forti compagni di coalizione. C’è il rischio, insomma, di fare la fine di Alfano quando era alleato di Renzi: così aderente alle tesi del capo da divenire infine superfluo. Contro questa deriva bisogna certamente attrezzarsi. Senza però correre un rischio ancora più grande ed esiziale. Quello di fare come Fini nei confronti della sinistra: aderire alle sue posizioni, raccogliere a piene mani applausi e attestati di democraticità, per ritrovarsi infine solo e irriconoscibile. Chi ha buone orecchie, intenda!