Al G20 serve un compromesso, ma anche regole e arbitri nuovi

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Al G20 serve un compromesso, ma anche regole e arbitri nuovi

01 Aprile 2009

Che ruolo giocheranno i vecchi “Stati-nazione” nell’affrontare la tempesta economica?

Le caratteristiche della crisi sono tali che gli unici attori in grado di affrontarla sono gli Stati. Naturalmente, il problema degli Stati è quello di affrontare la crisi in maniera tale da tener conto delle ragioni che hanno portato a questa crisi sistemica. O meglio, per governare il “salto di paradigma”. E siccome una delle caratteristiche del salto di paradigma è il passaggio verso una nuova forma di globalizzazione bisogna tenere conto anche del superamento dei medesimi Stati-nazione. Per dare una governance adeguata al nuovo mondo globale, dunque, bisogna creare le condizioni per una governance multilaterale di un mondo ormai definitivamente multipolare. I soggetti restano gli Stati-nazione per la semplice ragione che non ne abbiamo altri…

E l’Europa?

L’unico pezzo del mondo che è un po’ più avanti, e che tra l’altro non riesce ad approfittarne perché non è del tutto consapevole, è proprio l’Europa. Almeno in piccola parte, il Vecchio Continente ha già proceduto nella direzione della integrazione e verso il superamento dello “Stato-nazione”, in una dimensione – chiamiamola così – di forme di integrazione regionali e di un certo trasferimento della sovranità nazionale verso un livello sovranazionale.   

Insomma, più stati e meno mercati?

Non proprio. Gli unici soggetti in condizione di poter affrontare le sfide proposte dalla crisi – che sono sfide legate a una sorta di squilibri eccessivi che il sistema precedente non era stato in grado di controllare – sono inevitabilmente gli Stati e quindi i governi degli Stati. Per la semplice ragione che essi hanno alcune di quelle caratteristiche che né i singoli appartenenti alle comunità umane, né quel particolare fenomeno che siamo abituati a chiamare “mercato”, possiedono. Gli stati hanno il monopolio della forza; il controllo delle risorse complessive delle comunità; e hanno la possibilità di dettare delle regole. Basta rileggere Adam Smith – il massimo teorizzatore dell’economia di mercato – che ci ha spiegato come se è vero che nel mercato funziona una “mano invisibile” al tempo stesso essa non è in grado di governare il mercato  se non si accompagna alla mano "visibile" dei governi, che devono fissare il sistema di regole che permette poi al mercato di funzionare. Il mercato è quindi un meccanismo automatico che, senza un sistema di regole endogene – fissate dall’esterno, fissate dagli unici soggetti che sono in grado di stabilire delle regole valide per tutti, ovvero gli stati, i governi – non può funzionare.

Per semplificare?

Basti pensare all’attività umana più legata al concetto di competizione che è lo Sport. Si provi a pensare a qualsivoglia sport che funzioni senza regole e senza un arbitro. Quindi ci vogliono regole e arbitri.  

La storia ci insegna che se le leadership falliscono arriva il conflitto…

Historia magistra vitae. Fino a oggi tutti i passaggi e le crisi sistemiche sono state superate attraverso un conflitto. Le leadership umane non riuscivano a mettersi d’accordo sul nuovo ordine che doveva corrispondere al salto di paradigma, messo in moto dalla crisi sistemica, senza prima ammazzarsi e quindi decidere chi contava di più e chi contava di meno sulla base del conflitto. Questo è successo anche nel caso della celebre e spesso evocata crisi del ’29-’30, che poi è stata superata solo con la Seconda Guerra mondiale tra il ’39 e il ’45.

E oggi?

Questa volta abbiamo una chance. Che le comunità umane riescano a superare la crisi sistemica senza una conflittualità troppo forte, perché nel frattempo l’evoluzione tecnologica ha reso il passaggio del conflitto così costoso, così devastante che nessuna delle leadership umane – soggettivamente – preferisce la strada della guerra a quella della costituzione di un compromesso prima del conflitto stesso, mediante negoziati, trattative, e così via. Detto questo può succedere che, nonostante non manchi la volontà soggettiva, ci sia invece una incapacità oggettiva di raggiungere questo risultato e che quindi, anche in assenza di una precisa volontà delle leadership o di parti di esse, si possa scivolare verso il conflitto. Questo sarà inevitabilmente il destino dell’umanità se non riuscirà, attraverso il compromesso, con il negoziato, con la politica, con la diplomazia, a creare le condizioni per quella che chiamo la nuova governance multilaterale del mondo multipolare.

Come si arriva a questo compromesso?

E’ l’oggetto della discussione in corso, come d’altronde si vede in queste ore. Il vertice del G20, ovviamente, non riuscirà a risolvere tutti i problemi, anche se però si cominciano a identificare le intenzioni dei diversi soggetti principali. La Cina dice con chiarezza che il suo terreno per il compromesso è un nuovo ordine monetario. Gli Stati Uniti, a cui indubbiamente questo terreno di compromesso piace poco – perché significherebbe accettare la premessa della fine dell’egemonia americana – dicono di no: l’ordine monetario rimarrà lo stesso per un lungo tempo. Ma gli Usa lo fanno per ragioni difensive e contropropongono il terreno del climate change. Dicono: entro aprile inizieremo ad affrontare il problema del cambiamento climatico, perché gli Usa pensano che su questo terreno abbia più da perdere la Cina. Prima o poi, però, questa schermaglia dovrà inevitabilmente portare a un punto di compromesso. Personalmente penso che questo dovrà avvenire sul terreno dell’ordine monetario, ma ci sono ovviamente anche altri dossier, come il climate change, il commercio internazionale, e così via, e il compromesso sarà figlio del negoziato.

Come possiamo definire questo “nuovo ordine monetario”?

C’è tutta una letteratura infinita e straordinaria sull’argomento. In questi giorni moltissimi e autorevoli commentatori della stampa americana e internazionale sono intervenuti indicando la questione monetaria come il terreno decisivo. In effetti c’è una ragione perché – se il compromesso presuppone una convergenza tra interessi divergenti, e talvolta addirittura confliggenti – il terreno più semplice e anche più concreto è quello di mettersi d’accordo sulla gestione dell’ordine monetario, visto che c’è già un know-out sperimentato storicamente. Il precedente è naturalmente la conferenza di Bretton Woods (dopo il secondo conflitto mondiale, non prima), quando i vincitori della Guerra si trovarono a decidere intorno a cosa far ruotare il nuovo ordine mondiale. Si riunirono e discussero e alla fine ne venne fuori quello che era un vero e proprio ordine monetario centrato non più sulla sterlina, non più sull’oro, ma sul sistema di cambi fissi delle valute agganciate al rapporto tra dollaro e oro. Ma soprattutto centrato sulle monete nazionali. Un sistema che dipendeva dalle decisioni della Federal Reserve e quindi dal ruolo degli Stati Uniti.

Cos’è successo da allora?

Oggi l’ordine monetario durato dal 1944 fino alla crisi del 2008 non regge più. Il messaggio dei cinesi è: siamo pronti ad accettare ancora un ordine monetario in cui il dollaro sia la moneta più importante, in qualche modo il perno del sistema, ma non possiamo più accettare che poi questa moneta venga governata unilateralmente dalle autorità statunitensi sulla base dei loro interessi nazionali. Quindi, dicono sempre i cinesi, noi siamo compartecipi di una situazione economica globale, abbiamo messo i nostri risparmi in dollari e non possiamo accettare né che la gestione americana unilaterale provochi inflazione, né che svaluti il dollaro facendoci pagare il costo della crisi americana. Quindi vogliamo un’intesa, per così dire, ‘compartecipata’ e soprattutto un sistema monetario che naturalmente richiederà un certo tempo per essere definito nelle sue architetture ma che dipenda da una gestione multilaterale.