Al Gore e la rivincita del perdente risentito

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Al Gore e la rivincita del perdente risentito

12 Ottobre 2007

Pensavate anche voi che la parabola
discendente dei Premi Nobel non potesse scivolare più in basso di Dario Fo e
Yasser Arafat? Think again. Oggi
l’Accademia Reale Svedese delle Scienze ha infatti assegnato il Nobel per la
pace ad Albert Arnold Gore Jr., detto Al, ex vicepresidente degli Stati Uniti,
ex candidato (sconfitto) alla Casa Bianca, ex presunto “inventore di Internet” ed
attuale campione mediatico del più retrivo medievalismo ambientalista. Il Comitato
Nobel ha deciso di premiare Gore per i suoi “sforzi nel rafforzare e diffondere
una maggiore conoscenza sui cambiamenti climatici provocati dall’uomo” e per
“aver posto le basi delle misure che sono necessarie per contrastare tale
cambiamento”. E, già che c’era, ha assegnato lo stesso riconoscimento al Gruppo
intervernativo di esperti sui cambiamenti climatici dell’ONU (IPCC).

Quale sia il nesso logico tra la “pace
nel mondo” e il connubio tra un estremista ambientalista e un gruppo di
burocrati delle Nazioni Unite, sinceramente non ci è dato sapere. Ma vale forse
la pena di ripercorrere brevemente la biografia essenziale di un uomo, Al Gore
appunto, che sembrava predestinato a diventare il commander-in-chief del mondo libero e si è invece ritrovato a vincere
un Oscar e un Nobel.

Albert Arnold Gore Jr. nasce a Washington
D.C. (come dubitarlo?) il 31 marzo 1948, figlio di un deputato (e poi senatore)
del Tennessee e della prima donna laureata in legge alla Vanderbilt University.
Al trascorre un’infanzia da pendolare tra tra Washington e Carthage
(Tennessee), prima di entrare al liceo (con risultati mediocri) e poi a
Harvard, nel 1965. Compagno di stanza dell’attore Tommy Lee Jones, Gore non
brilla né per talento né per costanza. E dunque decide di abbracciare la carriera politica. Si laurea nel luglio del
1968 con un Bachelor of Arts degree in Government,
parte per quattro mesi in Vietnam (dove scrive per il giornalino della base
militare, evitando accuratamente il fronte), e poi torna finalmente in Tennessee,
dove ottiene la specializzazione in Legge prima di candidarsi al Congresso
dello stato, nel 1976, nell’open seat del
3° distretto.

Gore vince (senza troppi sforzi suoi e
con molti sforzi del padre) le primarie democratiche e poi corre senza
oppositori alle elezioni generali, ottenendo la sua prima carica pubblica.
Viene rieletto nel 1978, nel 1980 e nel 1982. Nel 1984, invece, si presenta al
Senato nazionale, occupando il posto lasciato vacante dall’ex leader della maggioranza
repubblicana, Howard Baker. Resta senatore junior del Tennesse fino al 1992, quando
Bill Clinton lo sceglie come candidato alla vicepresidenza. Nel 1988, però,
Gore aveva deciso di tentare la corsa solitaria alla Casa Bianca con una
strategia elettorale piuttosto inconsueta (saltare Iowa e New Hampshire per
concentrarsi sul Super Tuesday). Malgrado le vittorie in Arkansas, Kentucky,
Oklahoma e Tennessee, un risultato particolarmente negativo a New York lo
costringe ad abbandonare la sfida, lasciandogli il dubbio onore di essere uno
dei pochi esseri umani ad aver subito una sconfitta da parte di Michael
Dukakis.

Dopo la sconfitta del 1988, Gore scrive
il libro “Earth in Balance” in cui già si intravedono le fondamenta di una
futura deriva neo-oscurantista, ma gli anni alla Casa Bianca gli impediscono di
coltivare seriamente questa sua fissazione. In compenso, il vicepresidente
trova il tempo di “inventare Internet” (come ha il coraggio di affermare in una
intervista alla CNN), spingere per la firma del Trattato di Kyoto (senza
neppure portarlo al Senato per una ratifica assai improbabile) e costruirsi una
fama di scarso comunicatore che viene ridicolizzata anche negli ambienti vicini
alla sua stessa parte politica.

Finita l’era Clinton, Al Gore diventa il
candidato naturale del suo partito alla presidenza. Durante gli otto anni
precedenti, l’economia è cresciuta a ritmi vertiginosi (merito della
rivoluzione informatica, non certo della Clintonomics) e questo rende gli Stati
Uniti il terreno ideale per una conferma trionfale dell’amministrazione
democratica alla Casa Bianca. Gore si sceglie un candidato alla vicepresidenza
centrista (Joe Lieberman) per bilanciare un’immagine troppo spostata a sinistra
e assolda quel miracolo di autolesionismo che risponde al nome di Bob Shrum, il
guru populista che è già stato lo stratega e lo speechwriter di Edmund Muskie, George McGovern, Ted Kennedy, Dick
Gephardt e Michael Dukakis. Tutti questi politici democratici hanno almeno due
tratti in comune: sono di estrema sinistra (almeno secondo i parametri Usa) e sono
stati sconfitti in una corsa alla Casa Bianca. A sorpresa, ma non troppo, anche
Gore subisce lo stesso destino, in una delle elezioni più travagliate e
spettacolari della storia statunitense.

Considerato il super-favorito dai mainstream media, anche se i sondaggi lo
vedono pericolosamente vicino a George W. Bush, Gore conquista la maggioranza
dei voti popolari ma un pugno di voti in Florida (537 per l’esattezza) lo
condanna ad una sconfitta clamorosa nel computo dei voti elettorali (271 a 267).
Dopo la lunghissima notte in cui i network assegnano la Florida prima a Gore,
poi a Bush e infine a nessuno dei due, i democratici tentano con ogni mezzo –
legale e non – di ribaltare il risultato. Per oltre un mese il sistema politico
precipita nel caos, poi la Corte Suprema ristabilisce l’ordine, annulla tutti i
recount e assegna di fatto la presidenza ai repubblicani.

A questo punto, il “sore loser”, come lo chiamano i suoi detrattori, scompare. Per anni.
Qualcuno lo avvista in località sperdute con una lunga barba incolta, qualcuno
parla di crisi mistica, qualcuno teme per la sua salute. L’unica cosa certa è
che in tutte le sue biografie c’è un “buco” che va dal novembre 2000 al
dicembre 2002, quando annuncia che non si ricandiderà alla Casa Bianca. Per il
suo ritorno sulla scena politica, però, bisogna aspettare fino al 9 febbraio
del 2004, in piena campagna elettorale per le presidenziali. Gore attacca Bush
in uno dei discorsi più violenti e sgradevoli della storia politica recente
americana: lo accusa di aver manipolato la tragedia dell’11 settembre per il
suo tornaconto personale e invita tutti i democratici ad unirsi per sconfiggere
il demonio. Nell’aprile dello stesso anno, regala 6 milioni di dollari al
partito (probabilmente frutto delle sue “consulenze” con Apple e Google).

Ormai
da anni Gore dichiara che non si presenterà alle presidenziali del 2008, anche
se la tentazione di vendicarsi dei Clinton – che non gli hanno mai perdonato di
essere stati “snobbati” durante la campagna elettorale del 2000 – deve essere
fortissima. Per ora, sembra che Arnold Albert Jr. voglia tenere fede alla
promessa, ma nei sondaggi per le primarie il suo nome continua rappresentare la
terza o quarta scelta dei simpatizzanti democratici, insieme a John Edwards,
con uno zoccolo duro di sostenitori che raramente scende al di sotto del 10%.

Quello che Gore è riuscito a fare
benissimo negli ultimi anni, grazie all’aiuto di finanziatori e media
compiacenti, è stato costruirsi un’immagine da paladino ambientalista che gli
potrà essere molto utile per le ambizioni politiche future, anche se magari
cozza un po’ con le sue abitudini personali. Appena dopo la presentazione del
film “An Inconvenient Truth”, che gli ha fruttato un Oscar per il miglior
documentario, il Tennessee Center for Policy Research ha scoperto che la sua
casa-di-20-stanze-e-piscina nei sobborghi di Nashville consuma qualcosa come
221mila kilowatt-ora all’anno. Venti volte la media nazionale americana. Alla
faccia della “conservazione dell’energia” e dei “cambiamenti climatici causati
dall’uomo”. Ma non bisogna meravigliarsi troppo di queste contraddizioni. Gore
spingeva disperatamente per l’intervento militare in Iraq negli anni Novanta,
prima di diventare uno dei più fieri oppositori dell’operazione Iraqi Freedom; si
è vantato di aver “inventato Internet”, prima di denunciare la Rete come la
causa più profonda dell’imbarbarimento politico; ha fatto campagne elettorali
favorevoli al free trade, prima di
presentarsi alle presidenziali con una piattaforma ultra-protezionistica. Perché
stupirsi se proprio lui, che per mestiere strilla contro l’inquinamento e il global warming, possiede una casa che
inquina come una fabbrica cinese?